Wunderkammer Cinématographique: Volume 2
Wunderkammer Cinématographique (tradotto: La Stanza delle Meraviglie Cinematografiche) è la nuova rubrica cinematografica curata dal sottoscritto, assieme a quella orma nota come “All you Need is Cinema” che puntualmente esce ogni Sabato mattina. Al contrario, infatti, della sua gemella di carta e inchiostro, questa non godrà di una costanza particolare, poiché l’idea, all’origine, era quella di scrivere, di tanto in tanto e per puro svago, un articolo che contenesse all’interno un massimo di 5 film recensiti con un massimo di 500 parole.
Buona Lettura e Buona Visione!
di Richard Linklater
Richard Linklater con Boyhood riesce ad annientare la concezione di Cinema sia fisicamente che metaforicamente, mostrandoci una storia così complessa ed umana da diventare immediatamente un cristallino riflesso della realtà che ci circonda. Dodici anni di riprese, ecco cosa è stato questo film, ma tanto lavoro dietro alla macchina da presa alla fine, per quel che riguarda il sottoscritto, non può non essere ripagato con il massimo dei voti poiché l’impegno e la costanza di Richard Linklater è tanto esemplare ed unica da rappresentare una novità non solo dal punto di vista visivo, ma anche concettuale, rivelandosi sotto alcuni punti di vista una rivoluzione.
Boyhood è in sé e per sé un grande esperimento, una prova, una scommessa ed al contempo, sopratutto, un azzardo che dopo un decennio tuttavia appare riuscito e vinto, perché di fronte ad una storia tanto semplice, e che parla in fondo di tutti noi, è un prodotto capace di saper andare affondo negli usi e costumi di un popolo, dandogli a questi anche una scintilla inedita, riciclando alcuni elementi dell’immaginario collettivo affiancandoli, però, ad una vicenda umana legata ad una famiglia imperfetta che vede una madre divorziata responsabile della vita dei suoi due figli. Boyhood per certi aspetti vuole cogliere il senso della nostra vita, che ci sussurra essere un attimo costante, che di tanto in tanto ci coglie, impreparati o meno, e ci invita a fare delle scelte, ma sotto un discorso puramente cinematografico Richard Linklater è riuscito a rompere le barriere del cinema, innalzando in tal modo la settima arte ad un livello che pochi nella loro carriera talvolta hanno raggiunto poiché raramente si assiste ad un film che riesca a parlare di noi tutti, ad essere tanto verosimile da apparire reale. Boyhood, infatti, non è solo un lungometraggio, è un alchimia di elementi, è il lavoro di un uomo durato ben dodici anni, che sa commuovere, emozionare, annoiare, divertire come ben poche cose riescono a fare, riuscendo a toccare il nostro animo come solo la vita vera sa fare.
Voto: ★★★★
di Paolo Virzì
Due anni dopo Tutti i Santi Giorni, opera tratta dall’omonimo romanzo di Simone Lenzi “La Generazione”, Paolo Virzì torna a far parlare di sé con una pellicola per questi innovativa che abbraccia vari generi pur non lontana da molte delle tematiche e scelte che hanno caratterizzato il passato del regista Livornese ricongiungendosi così, coerentemente, ad altri suoi lavori.
Rimane, considerata la prolifica carriera di quest’ultimo, forse l’opera più ambiziosa e studiata, un lavoro che non si rivela essere né un noir, né un thriller vero e proprio, ma piuttosto una perfetta matrioska che ad ogni minuto che passa scava sempre di più nella vita dei suoi personaggi, i quali, esattamente come in un teatro di burattini (ove Virzì si appresta ad essere un cinico burattinaio) recitano, ognuno in modo diverso a causa delle tante situazioni diverse, la loro parte impotenti di fronte al destino ed alla loro sorte. Perché Il Capitale Umano non è solo una pellicola che denuncia la nostra società, un paese che valuta in euro anche le vite umane, è sopratutto un prodotto elaborato fin nei minimi particolari che ruota attorno a soli due eventi diluiti in uno spazio temporale di sei mesi, ma che grazie ad un certo labor limae effettuato dietro la macchina da presa riesce appieno a convincere senza dimostrarsi noioso o ripetitivo. Ad aumentare, inoltre, la godibilità della pellicola il merito è anche di un cast ben assortito, che Paolo Virzì sa far recitare con naturalezza, ma che tuttavia viene meno quando sulla scena vi è Valeria Bruni Tedeschi, di certo una delle miglior attrici al momento in Italia, che con il suo sguardo talvolta vuoto, perso ed annebbiato, talvolta frustrato e vinto carica il suo alter ego cinematografico di una sensibilità difficile da trovare tra i comprimari.
In questo modo, anche Il Capitale Umano merita di essere riconosciuto come uno dei lavori più interessanti dell’anno, che annienta la realtà nel suo senso più superficiale, così come essa soggettivamente appare, ed offre numerose verità, quasi ci apprestassimo a vedere una commedia degli equivoci, ove nessuno è realmente come si dimostra e dove in fondo tutti vogliono possedere oro, sperperare ricchezza e arricchirsi, anche chi, come il povero Dino Ossola (un ispirato quanto drammaticamente istrionico Fabrizio Bentivoglio), non è tagliato per vive su, ma sopratutto di certi agi, ma che vuole comunque sporcarsi le mani, tutto questo perché oggi non conta come si è dentro (o forse non ha mai contato nemmeno in passato, più di ora), ma come si è fuori. Dietro ai tanti parassiti e avidi che colorano il nostro mondo il regista ci lascia però intravedere un briciolo di speranza, un barlume di fiducia verso i giovani e le nuove generazioni. Un lungometraggio, che se vogliamo essere precisi, ha il solo grande difetto di conservare di tanto in tanto una tecnica che si confà al piccolo schermo, non esprimendo al meglio il proprio potenziale visivo complice anche, talvolta, una fotografia non particolarmente ispirata. Detto questo, però, è giusto ripetere che The Human Capital resta una delle punte più alte del cinema italiano del 2014.
Voto: ★★★1/2
di Paul Thomas Anderson
A poche settimane dal ritorno in sala per Paul Thomas Anderson, con il film basato sul romanzo di Thomas Pynchon “Vizio di forma”, voglio parlarvi del sul penultimo film: “The Master”. Questa pellicola, che ha ricevuto il Leone d’argento per la miglior regia e la Coppa volpi per la miglior interpretazione maschile a Venezia, è un’opera che difficilmente si lascia raccontare. Tanto bella è la sua forza visiva quanto intensa è quella emotiva. Ma andiamo con ordine.
Siamo nel 1949, Freddy Quell (Joaquin Phoenix) è un uomo solo e psicologicamente instabile. Ha partecipato come marinaio alla seconda guerra mondiale e da allora il suo sistema nervoso è compromesso. Le cure fornitegli dalla marina militare non l’aiutano a reintegrarsi con il mondo esterno. Per puro caso, Freddy, incontra Lancaster Todd (Philip Seymour Hoffman), carismatico capo di un movimento chiamato “la Causa”. Da quel giorno, Lancaster, decide di prendere sotto la sua protezione Freddy, ed insieme, inizieranno un percorso che li vedrà a lungo insieme.
Il regista mette in scena due personaggi che rappresentano gli antipodi della follia stessa. Freddy, ovvero la pazzia incontrollabile, che ha bisogno di vivere sotto il severo controllo e il rispetto di determinate regole che gli devono essere imposte. E Lancaster, la follia in giacca e cravatta, ben confezionata, quella più pericolosa, perché in grado di essere persuasiva e di coinvolgere ed assimilare le menti più fragile e bisognose. Due modi di vivere e di pensare così lontani, ma nello stesso tempo così vicini, ed in grado di affezionarsi e legarsi uno all’altro. Lancaster, fin da subito, è convinto di riuscire a guarire lo stato di malessere di Freddy, e si impegna a prenderlo come esempio per la sua comunità facendolo sottoporre in maniera continua a prove di autocontrollo fisico e mentale. Il rapporto che si creerà tra i due personaggi, ovvero quello di maestro ed allievo, o di padre e figlio se vogliamo, dimostrerà come le due personalità seppur così lontane nel modo di vivere e di pensare riescono ad amarsi e compensarsi a vicenda. Ma si dimostreranno anche impossibili da far convivere insieme nel tempo. Un film che parla della solitudine e della libertà, di quanto la mente umana possa essere persuasiva o malleabile. Un finale che vi farà ancor più apprezzare quello che avrete visto fino a quel momento, e chi vi porrà nella vostra mente molte domande sul significato dell’opera. Una pellicola che per essere veramente apprezzata avrebbe bisogna di un paio di visioni. Per citare le parole dello stesso regista, in una sua intervista Anderson disse a proposito del film: “Una storia d’amore, tra due casi clinici!”. Un capolavoro: per chi se lo merita.
Voto: ★★★★★
*Recensione scritta da Dario Albano