Wunderkammer Cinématographique: Speciale Natale (Volume 6)
Questa volta, in concomitanza con il periodo delle festività del Natale, abbiamo deciso di fornirvi cinque pellicole a tema, prendete carta e penna, mettetevi comodi sulla vostra poltrona, sorseggiate del buon tè caldo, o un bollente caffè fumante e gustatevi questi lungometraggi per dare un senso alle vostre feste, facendo appello a tutto il vostro buon senso per non mangiare troppi Panettoni, Cioccolatini, Pandori o leccornie tipiche di questo periodo.
Al contrario, infatti, della sua gemella di carta e inchiostro, questa serie di pubblicazioni non godranno di una costanza particolare, poiché l’idea, all’origine, era quella di scrivere, di tanto in tanto e per puro svago, un articolo che contenesse all’interno un massimo di 5 film recensiti con un massimo di 500 parole.
Con l’avvento, infatti, della nuova realtà virtuale, mi riferisco ai vari social network, si è sempre più portati a trovarci tra le mani un certo numero di concetti liquidati in un massimo di tre o quattro righe con modalità immediate. Pur considerando, almeno personalmente, la cosa in sé non troppo illuminate o lunsighierà, trovo abbastanza interessante tuttavia cercare di elaborare il modo per riassumere un giudizio in poche righe, affidandomi ad una scarsa capacità di sintesi, quasi a voler fare, qui dunque, della brevità un punto di forza.
Non aspettatevi, perciò, da questa nuova rubrica, un commento su un film scritto in due righe e mezzo, ma siate consapevoli che in un solo articolo pubblicheremo ben quattro recensioni (che poi potrebbero anche essere riprese ed ampliate, dunque inserite nella sezione cinema indipendentemente in futuro) o al massimo cinque. Le pellicole scelte potranno non avere un tema che funga da comune comune denominatore, siate, per questo, pronti ad aspettarvi i più strampalati accozzamenti di idee.
Buona Lettura,
Buona Visione,
Buon Natale
&
Buone Feste!
di Robert Zemeckis
Uno dei più famosi ed apprezzati racconti natalizi, nati dalla straordinariamente di Charles Dickens, viene qui riproposto con la tecnica della Motion Capture da Robert Zemeckies, già esperto in questo specifico ramo della settima arte grazie ai precedenti lavori quali Polar Expresse e Beowulf. Il taccagno ed avaro Ebenezer Scrooge odia il Natale e la gioia delle persone per l’arrivo dell’anno avvenire, ritiene che questi rappresentino una perdita di tempo e siano, soprattutto, alcuni dei momenti più inutili dell’anno, dove le persone diventano “un giorno più vecchie e non un soldo più ricche”; persino il suo unico impiegato, Bob, è costretto a dover sopportare tante cattiverie durante i duri orari di ufficio.
Ebenezer, tuttavia, cambierà radicalmente atteggiamento verso il Natale, quando, a vent’anni dalla morte del suo socio Jacob Marley, riceverà, nella notte del 24 Dicembre, la visita del fantasma di quest’ultimo e di tre spiriti, ognuno di essi metafora di un preciso momento nel tempo riconducibile al Natale Passato, Presente e Futuro.
Pur facendo uso di una tecnica insolita nel Cinema, e concentrando gli sforzi su elementi legati più al viaggio stesso che alla morale cristiana e umana, vero cuore nevralgico dell’opera originale, Zemeckies, grazie alla scrittura brillante e alla potenza della storia, confeziona un prodotto saldo e efficace, sorretto da una delle migliori performance di Jim Carrey e straordinariamente curato sotto l’aspetto estetico. La Londra innevata, in piene feste natalizie, colma di bambini e adulti che corrono da una parte all’altra delle scivolose vie e dei tanti vicoli di mattoni rossi e d’argilla, prende vita in ogni inquadratura, a cominciare da piano sequenza introduttivo capace di regalare scorci efficaci ed incredibili. Il 3D dona molto al lungometraggio, conferisce al tutto una profondità davvero considerevole ed appagante, e le musiche di Alan Silvestri, accompagnate dal brano eseguito da Andrea Bocelli, “Dio ci Benedirà”, si sposano costantemente bene con quanto viene rappresentato.
Sebbene l’uso massiccio del computer comporti un invecchiamento progressivo, anno dopo anno, e poco realistiche movenze, oltre che a legnose espressioni, è indubbio che la storia di Un Canto di Natale, anche in questa trasposizione, riesca sempre ad apparire originale, commovente, sincera e prova della grande maestria di Zemeckies, dietro alla telecamera, ed all’autore che l’ha creata, Dickens, colui che è stato capace di parlare del Natale in maniera sincera ed umana.
di Richard Curtis
Scrivere e dirigere una commedia non è mai semplice, per quanto oggi sembri più una moda che un bisogno, immedesimarsi nella figura di un abile burattinaio capace di muovere i fili giusti è tutt’altro che scontato. Richard Curtis, che aveva già buttato giù la sceneggiatura di Bridget Jones, Notthing Hille Quattro Matrimonie e un Funerale non è di certo il miglior commediografo su piazza, ma tutti i suoi lavori hanno comunque riscosso un discreto successo sia a livello popolare che di critica.
Con Love Actually il regista inglese cala qualunque tipo di maschera e non nasconde i suoi veri intenti e tutti quegli stimoli che l’hanno portato a scritturare una pellicola che fa della parola e del concetto “Love” un unico e grande punto di forza. Il lungo percorso che devono infatti affrontare i personaggi coinvolti, che sono quasi una ventina a voler contarli tutti, vede essenzialmente tutta una serie di complicazioni e incomprensioni che prendono forma nel periodo natalizio nella città Londra.
Tante sfaccettature accompagnano la pellicola, ognuna gestita in modo convincente e mai troppo sdolcinata tanto che l’agognato “happy ending” non sarà servito per tutti su un piatto d’argento; per rendere il tutto più realistico alcuni comprimari partiranno, non a caso, da una posizione “svantaggiata”, mentre ad altri persino sarà a causa del loro comportamento che dovranno fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni. Questo dettaglio, per quanto insignificante, rende il prodotto godibile e verosimile in modo che giunti ai titoli di coda non si abbia la sensazione di aver assistito ad un racconto banale e scontato.
Curtis, come spiega bene la voce fuori campo nel prologo, non cerca in alcun modo di salvare in extremis i tanti attori che degnamente riesce a manovrare nelle due ore abbondanti, bensì vuole descrivere quello che è per lui l’amore, sia che si parli di affetto, amicizia, fedeltà, sesso o lealtà. Non è importante dunque saper parlare la stessa lingua o essere originari dello stesso paese, per quanto questo sia uno stereotipo ormai abusato, al sentimento non si può non rispondere né rimanere indifferenti in toto.
Love Actually – L’Amore Davvero è una commedia romantica riuscita, da vedere principalmente da Natale o a voler essere precisi da 5 settimane dal 25 Dicembre per rispettare appieno il calendario del lungometraggio che in definitiva si presenta al pubblico in modo assolutamente genuino, semplice e diretto. Non siamo di fronte ad un prodotto impeccabile, dato che è possibile riscontrare lungaggini che appesantiscono la pellicola, ma nel complesso non si può bocciare un lavoro simile che si allontana dall’essere una pura operazione commerciale pur proponendo talvolta sequenze e situazioni già viste in altri lavori passati. Se cercate la pellicola perfetta a Dicembre, o quanto meno, se magari siete giù di morale non vi resta che chiedere di Richard Curtis e del suo Love Actually che anche grazie ad una eccellente colonna sonora saprà accontentarvi.
di Terry Zwigoff
Parlare del Natale a volte non esclude mettere in chiaro anche alcuni aspetti scomodi della festività; la festa amata da gran parte dei bambini, per i regali che Santa Claus porta loro nella notte tra il 24 ed il 25 Dicembre ha sempre dato vita a parodie o nemesi che talvolta si identificano in un uno o più personaggi immaginari ormai noti carichi di crudeltà o egoismo. Prendiamo ad esempio il Grinch o il taccagno Zio Scrooge nato dalla fervida immaginazione di Charles Dickens, facente parte di quella cerchia di persone del tutto inesistenti che odiano questa festività più che mai tanto da apparire, nelle varie rappresentazioni, sempre tetri o instancabilmente inquietanti, riflesso nitido nonché metaforico di un sentimento comunque comune presente nella società da parte di coloro che si allontano dallo stato d’animo particolarmente sensibile ed altruista che, finto o meno, riempie l’aria dell’ultimo mese dell’anno.
La commedia “natalizia” che in italiano ha trovato la buona traduzione con il titolo “Babbo Bastardo” che sostituisce il Bad Santa originale, è un prodotto che da un lato mette in scena una storia che ben si allinea con il tema a cui è legata ed ambientata, ma dall’altro mescola una ironica critica alla società americana ed al consumismo. In effetti quel che sorprende di più di questo lungometraggio rimane il fatto che pur rivelando una trama assai semplice e di certo non innovativa da un punto di vista puramente legato agli eventi narrati, essa rimanga comunque piacevole e sotto certe sfumature persino inedita.
Se non fosse per un Billy Bob Thornton in gran forma di sicuro il tutto avrebbe perso quell’alone di fascino e degrado che l’attore americano riesce a donare senza mai apparire forzato o sopra le righe. Il suo Willie è un vero Grinch del ventunesimo secolo, che passa le sue giornate a bere, fornicare e rubare la merce nelle casseforti dei grandi magazzini.
Babbo Bastardo è un discreto, nonché convincente film che si discosta molto ed in alcuni casi anche pesantemente dai classici natalizi che a fine anno affollano le televisioni, ove non assistiamo ad un abbondare sdolcinato di buoni sentimenti né a nevicate ad effetto capaci di rendere tutto più umano. Nella calda Arizona Babbo Natale deve fare i conti con bambini viziati e vittime di bullismo, mamme esigenti e collaboratori avidi, ma sopratutto deve cercare di convivere con se stesso e questa è la parte più difficile se come in questo caso, dietro alla barba finta si nasconde un uomo senza scrupoli che porta il volto invecchiato e sciupato di un perfetto Torntorn che con questa pellicola ci regala una delle sue miglior performances. Se cercate un prodotto alternativo, se volete allontanarvi dalla noia delle pellicole in pieno stile Natalizio, ma farvi comunque due risate e rimanere soddisfatti anche a livello di sano intrattenimento Bad Santa fa indubbiamente per voi!
di Sarah Smith
Di cartoni animati incentrati sul Natale, o sul periodo delle festività natalizie ce ne sono davvero molti, forse anche troppi ed è per questo che quando se ne presenta uno nuovo i dubbi e le paure non mancano mai. Dovendosi in primis rivolgersi ad un pubblico puramente infantile o estremamente giovane che a malapena superi l’adolescenza, il rischio di trovarsi tra le mani un prodotto imbastito di buoni sentimenti, retorica o una trama banale è sempre in agguato.
Il Figlio di Babbo Natale fortunatamente è l’eccezione che conferma la regola, poiché parte da una storia semplice, ma originale e capace di funzionare per tutti i suoi 90 minuti di durata complessiva. Le vicende attorno al giovane Arthur, figlio di Babbo Natale e fratello di Steve, prossimo Santa Claus in quanto primogenito, trovano la forza di imporsi sullo schermo senza richiamare eccessivamente gli stereotipi del genere, ma grazie ad una dose non da poco di ironia e un sarcasmo pungente queste riesco nell’arduo compito di confezionare un prodotto perfetto sia per i piccoli che per gli adulti.
C’è da dire che gran parte del lavoro lo si deve ad un reparto artistico che se non rimane su alti livelli sotto gli aspetti puramente legati ai particolari resta comunque ispirato e variegato. Inoltre il cuore pulsante della pellicola sta proprio nel voler da un lato ancorarsi alla modernità, ma pur sempre, dall’altro, cercare di rimanere stretta ai valori di un tempo. Ed ecco che proprio questo dualismo porta alla nascita non solo ipotetica ed astratta, ma anche fisica tra due realtà: quella incarnata dal vecchio Nonno ed il gagliardo Steve che pago di tutta la tecnologia disponibile ha perso la capacità di vedere il Natale non come un periodo di gioia o pur sempre sotto gli occhi di un “umano”, considerandolo come un lavoro qualunque, come se Babbo Natale fosse un semplice postino privo di un qualunque valore e senza obblighi morali.
Un dramma familiare, dalle sfumature quasi di quello esistenziale pur sempre governato da tutte le leggi che delineano un cartone animato, un prodotto che comunque rimane interessante per gli adulti ed ottimo per i bambini, malizioso e pungente ma pur sempre leggero e fiabesco che inscena la crisi e la decadenza della figura più in voga nel periodo natalizio. Perché Sara Smith riesce a conferire a questa famiglia di Santa Claus una sfumatura quasi opportunista, ipocrita ed egoista e questo dettaglio è ciò che le permette di confezionare un qualcosa di unico, capace di allontanarsi dallo stereotipo e vivere di una luce propria. Uno dei film d’animazione migliori degli ultimi anni.
di Dean DeBlois
Proprio come i migliori film Pixar ci hanno abituato nel passato, una storia per funzionare bene ed andare oltre al target di partenza a lei destinato, è giusto che goda di tematiche più profonde ed elaborate, che per funzionare in modo egregio possono anche arrivare a sacrificare alcuni dei più comuni stereotipi del genere. L’ultima fatica di DeBlois infatti si costruisce principalmente su i rapporti tra l’uomo ed il suo prossimo e l’essere umano e ciò che lo circonda, parlando di guerra, dominio, sottomissione e pace in modo tanto leggero quanto soddisfacente, dove a farne le spese è forse proprio l’antagonista, il quale assume più una valenza simbolica, tanto da risultare quasi stereotipato sebbene sia proprio la sua venuta in fin dei conti a scatenate tutta una serie di eventi grazie ai quali possiamo catalogare Dragon Trainer come una pellicola coraggiosa e matura che non punta tutto il suo potenziale sul cattivo di turno, ma che prende a cuore ben altri elementi.
Ogni personaggio, inoltre, sia che si parli di draghi che di umani, è perfetto e gode esteticamente di numerosi dettagli, appare di gran lunga più curato che in passato e buca lo schermo in ogni epica sequenza senza che questa appaia mai ridondante o eccessiva, ma coesa in un lavoro che fa dell’avventura e della spettacolarità visiva un punto di forza concreto. Si rimane veramente ammaliati da alcuni esemplari di viverne, frutto di un ottimo lavoro ed una frizzante fantasia ed al contempo non è veramente possibile soprassedere ai due nuovi comprimari che danno freschezza e originalità al resto del cast. Da un parte abbiamo il giovane mercante e cacciatore di draghi Eret figlio di Eret, un co-protagonista interessante nonché ambiguo che dovrà scegliere nel momento estremo da che parte stare, se appoggiare o meno Hiccup e i suoi amici o allearsi con Drago Bluvist; sembra strano, ma l’anti-eroe doppiato da Kit Harington (il Jon Snow del Trono di Spade) è una delle migliori idee trasposte su schermo dagli studi Dreamworks poiché spezza una visione manichea abbastanza elementare presente in ogni film di animazione risultato per certi aspetti essere abbastanza “rivoluzionario” a livello concettuale.
La seconda new entry è Valka, madre di Hiccup, alla quale, a darle voce è niente meno che Cate Blanchett, che si cala in un ruolo chiave, non tanto per i fini della storia, ma per l’evoluzione del personaggio principale, colmando quel vuoto che da quando non era che un bambino albergava dentro di lui, spingendolo ancora di più nella conoscenza della natura dei draghi e sottolineando l’armonia che può esistere tra essi e l’uomo. Una figura femminile che da nuova linfa ad una storia che forse, nel primo capitolo, manca proprio dell’elemento sopra descritto, affidando solo principalmente alla giovane Astrid il compito di far una sorta di equilibrio tra i personaggi messi su schermo.
Ancora una volta sentiamo, poi, le brillanti musiche di John Powell accompagnate da testi scritti dal cantante del gruppo Sigur Ros, che si sposano in modo egregio con la storia, la quale scorre fluida e senza intoppi per tutta la sua durata portando lo spettatore a godersi una vicenda tanto semplice quanto ben costruita anche a livello di montaggio, capace di narrare più storie e districarsi in filoni narrativi che non vedono protagonista solo Sdentato (mai tanto simpatico, umanizzato ed esteticamente perfetto come adesso) ed il suo amico umano.
Dragon Trainer 2 è il passo avanti che la Dreamworks presto o tardi avrebbe dovuto fare, per restare al passo con la Disney Pixar e non è un caso che abbia deciso di mettere in mostra una delle frecce migliori del suo arco proprio in uno dei più eclatanti momenti di piena crisi della casa di animazione con mascotte la lampadina balzante. Laddove, infatti, la Pixar di Lasseter non fa che proporre reboot e lasciandosi andare a rivisitazioni “aeree” di quel che fu Cars anni fa, abbandonandosi in un limbo privo di idee e invettiva, Dragon Trainer 2 si arma della potenza necessaria per ergersi come uno dei più bei film di animazione dell’annata, grazie anche ad un reparto estetico davvero curato e di avanguardia (nonché al passo con i tempi), un 3D eccezionale ed una storia tanto epica quanto toccante, che sebbene non brilli di originalità e non rivoluzioni ancora il genere, riesce comunque a rimanere incredibilmente attuale e ad appassionare sia grandi che piccoli, dimostrandosi come un netto passo in avanti rispetto a tutto quel che di buono si era già visto nel primo capitolo nel 2010. Salite in sella a questa avventura incredibile e lasciatevi trasportare da Hiccup, Astrid e Sdentato in una storia magica e ammaliante, davvero, non ve ne pentirete!