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Oggi vi presentiamo un racconto breve di Marco Bonavia, viterbese di nascita, rugbista per passione e intenso, fulminante scrittore. Buona lettura!
Mi piace il metrò quando fa le curve
di Marco Bonavia
Mi piace il metrò quando fa le curve. Mi ricorda quando ero piccolo e andavo al luna park vicino al mare con zii e cugini. Soprattutto mi ricorda il Brucomela. Che bello! È una giostra a forma di bruco che a un certo punto passa dentro una mela. Oggi è la prima volta che prendo il metrò da solo: mamma ha detto che, visto che ho iniziato le medie, ormai sono abbastanza grande.
Devo anche essere gentile, così appena entra un signore anziano gli cedo il posto e vado ad appoggiarmi a una sbarra. Lui sorride, io mi guardo intorno. Vedo degli occhi. Verdi. Subito abbasso lo sguardo, però rivedo continuamente quegli occhi. Il metrò si ferma e io scendo anche se non è la mia fermata. Chiamo mia madre e mi faccio venire a prendere.
Finalmente è estate, prendo il metrò per raggiungere i raga’. Solito posto, sempre in piedi, che sono giovane e forte, e al suo solito posto c’è sempre lei. Ormai ci sono abituato. Non che ci si possa abituare alla sua bellezza, ma non fuggo più appena la vedo come quando ero più piccolo.
Lei è veramente bella. Si vede che è alta anche se è seduta, ha i capelli castani, tenuti corti, e lentiggini sul viso, ma poche non come la Moretti, quella del IV A ginnasio che sembra il gioco della settimana enigmistica in cui bisogna unire i puntini. E infine ha occhi verdi. Da perdercisi. Lei sorride sempre.
Sembra proprio simpatica; mi chiedo che fermata aspetti, perché non l’ho mai vista scendere . Un giorno dovrei provare a parlarle. Oddio la mia fermata! Scendo al volo e vedo i miei amici.
Prendo il metrò per andare a ripetizioni di fisica. Ma si può fare fisica al liceo classico! Io l’ho preso proprio perché non volevo aver niente a che fare con le scienze e al terz’anno sbuca fuori fisica! Abbiamo iniziato da poco e già non ci capisco niente. Vorrei aver la forza di sorridere sempre come Elisabetta – a forza di vedere sempre la ragazza dagli occhi verdi mi è venuto istintivo darle un nome… sola e fiera, calma e sicura: poteva avere solo un nome da regina – che pure oggi è seduta lì, che sorride pensando a chissà cosa. Sembrerà stupido, ma vederla mi ha sempre dato un po’ di forza per sopportare, per andare avanti. Lei è sempre felice, ma possibile che le vada sempre tutto bene? Così ho deciso anch’io di provare ad essere sempre felice qualunque cosa accada, o almeno a non arrabbiarmi sempre. Sospiro. Scendo alla mia fermata e vado dritto filato dalla prof, chi la sente quella strega della mi’ ma’ sennò.
Che stanchezza! Oggi sul metrò vorrei proprio sedermi. Più si cresce e più ci si sveglia stanchi. Questa regola vale per tutti tranne per Betta che, oltretutto, sembra non crescere mai. È così da quando mi ricordo. Va detto che forse non la ricordo bene perché ero piccolo le prime volte che la vedevo, e poi mi vergognavo a guardarla. Ora non è che stia sempre a fissarla, ma non c’è più imbarazzo, forse complicità. Purtroppo non ho il coraggio di salutarla o parlarle, ma prima o poi capiterà. Ovviamente lei sorride.
Io sto andando a cercarmi un lavoro: quella megera, che si ostina a definirsi mia madre, mi ha detto che devo lavorare perché a scuola non combino più niente. Devo informarmi in qualche bar e in qualche ristorante perché vorrei fare il cameriere o il barista per ora. Speriamo bene.
Mi è andata bene al primo colpo. Appena fuori la metro ho trovato un ristorante che cercava un cameriere. Mi hanno avvertito che sarà dura perché dovrò lavorare tanto e fino a tardi, molto tardi. Dovrò servire ai tavoli e poi pulire i pavimenti e lavare i piatti insieme ad altri schiavi, volevo dire camerieri. La paga inizialmente sarà bassa, ma mi assicurano che col tempo guadagnerò sempre di più.
Mentre salgo sulla metro penso che non voglio tornare a casa, tanto quella vecchia befana avrà qualcosa da ridire anche se ho fatto solo quello che mi ha detto lei. All’improvviso mi accorgo che Elisabetta non sorride, per la prima volta nella mia vita lei non sorride. Torno a casa un po’ scombussolato. C’è aria di cambiamento: domani inizio a lavorare.
Oggi vado al mio primo giorno di lavoro. Mi sento strano, come rassegnato. Forse perché è la prima volta che lavoro. Forse perché sto entrando in quel giro di routine in cui nessuno sorride mai, forse perché mi sto affacciando nel pericolosissimo e grigissimo mondo assurdo del lavoro.
Elisabetta non c’è. Mi avvicino alla signora Urbani, una simpatica anziana, molto attiva, che abita al pianerottolo e a volte prende il metrò con me. Le chiedo se per caso sapeva come mai la ragazza che sta sempre in quel posto oggi non c’era.
“Ma caro, quel posto è sempre vuoto. Non vedi? Il sedile è sfasciato”.
Vado a toccare con mano. Il sedile è rotto. Ma non rotto un po’. Proprio rotto: impossibile sedercisi. Chiedo all’uomo seduto accanto da quanto tempo quel posto era così. Da sempre.
Betta, tu eri il sogno. La forza di credere nei propri sogni, sempre sorridendo, che hanno solo i ragazzi e se la mantengono da grandi sono chiamati sognatori. Ma in questo mondo non c’è spazio per i sogni e per questo sei destinata a sparire e a non sorridere più. Sono pronto a rassegnarmi; arrendersi non è una cosa da bambini, si impara da grandi: la vita ti costringe, ti fa inchinare. Mi spezzo, ma non mi piego paradossalmente si addice di più a un bambino.
Tu eri lì, Elisabetta, e adesso sei sparita per sempre. Anche per sempre è un’espressione strana: sta sempre sulla bocca dei bambini, ma la verità è che la usano solo i grandi.
Ma mentre vado in metrò vedo un bambino che guarda nel vuoto. Il sogno forse non è morto. Forse ci pensano i piccoli a sognare quando i grandi non ce la fanno più. Forse sogna te, Elisabetta.
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