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Writers Wednesday – Il Guerriero Ignoto

Qui su Uni Info News, il mercoledì è dedicato agli scrittori: con cadenza settimanale, verranno pubblicati racconti e poesie di giovani autori da tutta Italia, selezionati dalla nostra redazione! Oggi vi proponiamo Il Guerriero Ignoto di Filippo Puddu, un fantasy introspettivo che fa riflettere sulle implicazioni della guerra. Buona lettura!

Scrivi poesie o racconti? Hai un romanzo nel cassetto? Contattaci all’indirizzo giulia.pedonese@uninfonews.it ricevi un feedback dalla redazione e pubblica con noi!

Il Guerriero Ignoto
di Filippo Puddu

 

1. Primavera, 667

— Dovresti aggiustare le suole e riparare i tacchi… dovresti crescere Giulio e Maria.

L’uomo nascondeva gli occhi lucidi tra i soffici capelli dorati, profumati di lavanda, della donna.

— Sei un calzolaio, un padre. Non un guerriero.

L’odore della pelle liscia, il suono della voce, le mani poggiate sul petto a ribadire il possesso del suo cuore. Bruto non voleva far a meno di Sara, la sua vita.

— Sai quanto vorrei restare con voi, ma non dipende da me.

— Dipende da te, invece.

— Sara…

Perdersi nella profondità degli occhi della moglie lo emozionava ancora, come la prima volta che avevano incrociato lo sguardo, nella confusione di Piazza dei Mercanti. Le iridi non erano castane come  le sue, ma di una tonalità più chiara, dai riflessi d’oro.

— Potremmo scappare, sulle montagne, non ci verranno a cercare.

— Ricordi cos’è successo a Claudio?

Silenzio. La paura di perdere per sempre quegli istanti appesantiva le loro anime.

— Vieni qui.

Strinse la donna a sé con trasporto, in un abbraccio che sarebbe potuto durare in eterno. Sara chiuse gli occhi, cercando quel senso di protezione che tanto amava. Non riuscì a trattenere le lacrime, il dolore vinse sull’orgoglio di donna forte.

— Tornerò… te lo prometto. Tornerò.

Si baciarono a lungo, sperando che il tempo si fermasse in quell’attimo.

— Ti amo.

 

2. Autunno, 668

I corpi erano avvinghiati in una lotta mortale. Bruto riuscì a mettere l’uomo schiena a terra. Le spade erano poco distanti. Troppo lontane. Prese la testa del nemico tra le robuste mani nodose e iniziò a sbatterla con forza sul terreno roccioso, finché il cranio non si trasformò in una poltiglia sanguinolenta. Recuperò la lama e si mise in guardia, alla ricerca del prossimo Yucale. Puzzo di morte, di sangue e di piscio. Tutto intorno a lui era un’infernale latrina, i cadaveri massacrati erano come escrementi calpestati dai guerrieri ancora in piedi.

Nient’altro che armi cozzanti, corpi tesi nello sforzo del combattimento e arti mutilati. Il campo di battaglia scelto, la valle tra la Foresta dei re e il Bosco cieco, era stato trasformato in un caotico scannatoio.

— Grigi, grigi, grigi.

Bruto scrutava i nemici, la lama salda nella destra, i pugnali fissati alla cintura. La verde armatura, dopo due ore di battaglia serrata, era ricoperta da strati di sangue.

— Sporco Valerione!

Un uomo dalla corazza argentata, grosso quanto una montagna, abbatté il nemico come fosse un fuscello, il possente mazzafrusto gli fracassò il capo. Bruto si accorse dell’imminente pericolo, non aspettò che lo Yucale si voltasse verso di lui, con uno scatto gli fu sotto. Rapido montante e la mano armata cadde a terra. L’urlo dell’uomo si accompagnò a un ultimo, disperato, attacco. Con l’arto restante chiuse il collo di Bruto in una terribile morsa. Le iridi castane del calzolaio rimasero glaciali, con un affondo conficcò la spada nelle viscere della montagna. Lo osservò soccombere.

— Io… sono… un guerriero!

 

Si guardò attorno. Lo stemma dei Valerione, il bambino incoronato in campo verde, era a poca distanza da lui. Dai lampi sprigionati da quella direzione, capì che la Gemma era vicina. Non poteva mancare ancora molto, la magia doveva raggiungere il culmine al più presto.

— Proteggiamo il sacerdote, proteggiamo la vittoria!

Un lungo squillo di tromba, proveniente dalla Foresta dei re, si elevò sopra la valle. Era arrivato il momento della cavalleria.

 

3. Primavera, 667

— Corri papà, corri!

— Iiih!

Bruto nitrì, mentre carponi scorrazzava il piccolo Giulio per il cortile. Aveva gli stessi occhi della madre, castano chiaro, raggianti alla luce del sole.

— Sono Bairon, il vendicatore!

Il bambino si pavoneggiava, brandendo un fine pezzo di legno.

La primavera era arrivata, il pero di fronte alla bassa casa aveva germogliato. Il profumo dei fiori, che candidi salutavano la nuova stagione, addolciva l’aria.

— Papà, papà! Anche io voglio salire a cavallo. Però io sono la principessa, perché io sono femminuccia, vero mamma?

Sotto l’albero, Sara teneva in braccio Maria. Il viso della piccola, incorniciato da lunghi capelli biondo cenere, era illuminato da un sorriso splendente.

— Certo, amore di mamma, sei la mia principessa tu.

— Non te lo do papà! È mio, è mio il cavallo!

Giulio minacciò la sorella, brandendole contro la finta spada.

— Adesso il cavallo si trasforma in un gigante. Oh, oh, oh!

Con sicurezza, Bruto prese il figlio per i fianchi e lo mise a cavalcioni sulle proprie spalle; si drizzò in piedi.

— Attente, donne, arriviamo!

— Ma che paura!

Bruto allungò la mano e colse un fiore dall’albero, lo regalò alla figlia che ricambiò con occhi sognanti.

— Tu sei la mia principessa — le disse, poi scrutò nel profondo gli occhi di Sara. — Ma tu sei la mia regina. — La baciò dolcemente, sorridendo.

— No! Voglio essere io la regina, diglielo tu, mamma! — protestò la piccola, strattonandole la veste turchese. Mentre Giulio colpiva la testa del padre, geloso.

— Cosa sono queste coccole? Smettila papà, sei un gigante!

Un lampo e un tuono, minacciose nuvole nere interruppero giochi e risate.

— Sta per piovere, corriamo a casa. Forza mie regine!

 

4. Autunno, 668

Il campo di battaglia era diventato un pantano di sangue e acqua. Bruto non avrebbe saputo dire da quanto tempo la pioggia cadeva incessante sui loro corpi, preso dall’estasi dello scontro. Qualcosa era andato storto, l’aveva ben capito. La cavalleria avrebbe dovuto penetrare tra le linee nemiche, spezzando l’esercito degli Yucali in due tronconi; ma i compagni dovevano essere stati respinti dai picchieri nemici, e ora la fanteria era circondata.

— Ci stanno decimando!

— Ancora poco! — urlò il sacerdote, infilzando con la lancia un nemico troppo audace. Per ogni uccisione, la Gemma incastonata nell’arma acquistava nuova luminosità.

— Non c’è più tempo, prete! — Bruto gli era a fianco, nonostante la spossatezza, combatteva con rabbia felina. Difendeva se stesso e l’unica speranza di vittoria. Lo stemma reale giaceva a poca distanza, nel fango e nel sangue del portabandiera sgozzato.

I nemici avevano capito che la vera minaccia era costituita da quell’arma luminescente. Una marea di grigie corazze teneva ormai in pugno pochi Valerioni.

— Ora!

Il sacerdote conosceva la Gemma; le rughe profonde del suo volto tradivano la preoccupazione sulla buona riuscita del sortilegio. Ma la situazione era disperata. Brandì la lancia verso il cielo e urlò con tutto il fiato rimastogli nei polmoni. — Ad nos veni, Imago Dei!

Una saetta si sprigionò dall’arma e corse verso le alte nuvole nere. Non accadde nulla. Alcuni Yucali approfittarono della situazione; Bruto fu abbastanza rapido da difendere la propria vita, ma non quella del sacerdote. Lo sventrarono.

— No!

Il calzolaio conobbe in quel momento la più cupa disperazione, quella che fa compiere le azioni più temerarie, perché ormai ogni speranza è perduta. Si liberò di due nemici con potenti fendenti e si accorse di un guerriero che si avventava sul corpo esanime del prete. Bruto lo uccise, conficcandogli un pugnale da lancio nella nuca, e si gettò sull’arma incantata.

Un urlo straziante e rabbioso si innalzò sul clamore della battaglia, il contatto con l’asta era stato terribile e doloroso. Bruto tentò di ignorare la sofferenza e si preparò ad affrontare il nemico, tenendo ben salda l’arma. Ma dall’impugnatura iniziò a dipanarsi un denso fumo nauseabondo. Le mani si facevano sempre più violacee, mentre la carne bruciava. Il suo volto era una maschera di odio e disperazione, lacrime bollenti rigavano i lineamenti incrostati di fango e sangue. La testa diventò insopportabilmente pesante.

Venne riscosso dalle grida di uno Yucale che, brandendo un’ascia, correva impazzito verso di lui. Con un ultimo sforzo riuscì a respingerlo e conficcargli la lama nella carotide. Fu allora che l’arma brillò di un’intensità inaudita. Bruto cadde con le ginocchia nel fango mentre, istintivamente, sollevava la lancia sopra la testa. Le sue iridi si erano ormai trasformate in fiamme incandescenti.

 

Non uno, ma decine di fulmini si sprigionarono dalla Gemma e saettarono in cielo. Tutti i guerrieri vennero pietrificati da una forza misteriosa, i loro sguardi costretti verso l’alto. La luce si aprì un varco tra le pesanti nuvole. I guerrieri Valerioni avvertirono solo un intenso stridio che li gettò a terra tra urla agghiaccianti, afflitti da un dolore insopportabile alle orecchie. Gli Yucali dovettero ascoltare ben altro. Incantati da un potere mistico, rivolsero le armi verso se stessi. Si suicidarono tutti nello stesso momento.

Bruto non aveva subito lo stesso supplizio dei compagni, lui era stato partecipe del comando a cui la divinità aveva costretto i nemici. Tuttavia, quando l’intenso bruciore si diffuse su tutto il corpo fondendo le vesti e l’armatura con l’epidermide, e nessun suono poté più a uscire dalla bocca deformata da una smorfia di morte, visse l’ultimo istante di lucidità. Si ricordò di essere un semplice calzolaio e padre di famiglia, inadeguato per un compito esclusivo dei sacerdoti. Per un momento, lungo e lancinante, svestì i panni di guerriero e corse con il cuore a baciare Sara, ad abbracciare i piccoli Giulio e Maria. Come avrebbero potuto vivere senza di lui?

 

5. Autunno, 669

Il Colosso era l’orgoglio della Capitale, una statua di venti metri d’altezza che raffigurava l’eroe della Battaglia del Suicidio. Il marmo nero, ben levigato, metteva in evidenza i forti muscoli che tendevano l’arma magica verso il cielo. La Gemma, quella originale, che ancora brillava di un blu intenso, era stata incastonata là in alto. Era trascorso ormai un anno da quando il re in persona, Marco Antonio Valerione III, aveva inaugurato, orgoglioso, il monumento.

— Con questo, celebriamo il giorno della vittoria. Il Guerriero Ignoto siamo noi, sono io come lo siete voi, emblema della superiorità dei Valerione!

La folla lo aveva acclamato, spronato a continuare il discorso con urla e battere di mani.

— Grazie al Guerriero Ignoto, nessun popolo, e dico mai più nessuno, solleverà le armi, ribellandosi al nostro dominio. Perché è mio, come lo è di ciascuno di voi!

Ancora applausi. Il popolo assisteva gioioso, la felicità che palesavano era più ricca degli stracci che vestivano. Le centinaia di guardie armate, che formavano un cordone di sicurezza intorno alla piazza, vigilavano serie e impassibili.

— Viva per sempre il Guerriero Ignoto, viva i Valerione, viva la nostra invincibile superiorità!

 

Dodici mesi erano ormai passati, ma Sara sognava quel maledetto discorso ogni notte. Per tre volte il Re aveva ripetuto quel nome: “Guerriero Ignoto”. La stessa iscrizione, ai piedi del Colosso, riportava quella dicitura. Per loro, per Marco Antonio Valerione III, Bruto non era mai esistito. Per lei invece sì. Con lui aveva perso tutto: casa, dignità, vita e famiglia.

Ai piedi della maestosa statua, la donna stava accovacciata, stanca e sporca. In grembo sosteneva il capo della sua bambina, dalle labbra spaccate filtrava ancora un flebile respiro. Sara teneva la mano destra alta di fronte a sé, il palmo rivolto verso l’alto, alla vana ricerca della clemenza del prossimo. I suoi occhi, un tempo raggianti, si erano trasformati in una maschera di dolore. Cercando nel loro profondo, si poteva scorgere l’immagine del piccolo Giulio, massacrato di botte e lasciato morire per strada, soltanto per aver rubato una mela al mercato.

Sara non ci voleva pensare, preferiva che la mente riflettesse solo il buio più profondo. Ma ogni sforzo era inutile. I ricordi tornavano implacabili, impietosi, dolorosi.

 

Le forti braccia dell’uomo la cingevano, proteggendola. Poteva sentire il battito del suo cuore.

— Tornerò… te lo prometto. Tornerò.

Lo baciò a lungo, il tempo si fermò per sempre in quell’attimo.

— Ti amo.

 

 

 

Photo by Roberto Ferrari -via Flickr Creative Commons

 Filippo Puddu nasce a Terralba nel 1990. Studia Beni Culturali all’università di Cagliari. È cresciuto dando calci al pallone ma è finito per essere circondato da montagne di libri. Ama leggere e spazia dai Wu Ming a Stephen King.

 

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