È difficile scrivere qualcosa dopo aver visto questo film. La pagina di bella copia è bianca, e il puntatore picchetta in modo insistente, come quando le cose da dire sono troppe e non si sa da che parte cominciare.
Il foglio di carta è pieno di segni, appunti, cancellature che attestano la difficoltà di comprendere da subito i personaggi.
Sembra di conoscerli i locandieri, il signor Aydin e sua sorella Necla.
Sembra di rivedervi qualsiasi arabo che abbiamo conosciuto.
Semplicistico – d’accordo – ma vero. L’estrema gentilezza, cerimoniosa, dei modi di fare, l’estrema disponibilità. Il sorriso sempre sul volto davanti agli ospiti e agli estranei. Sorridenti come il Maestro Hamdi, l’Imam del paese, che nasconde con quel modo tutto turco tutte le cose che non vanno, dietro quel sorriso. Quel sorriso che non conosce discrezione, ma racconta tutto quello che c’è da sapere.
Ceylan ci racconta la Turchia delle case, dei ciocchi davanti al fuoco nel freddo dell’Anatolia.
Non c’è Erdogan o Davutoğlu, non c’è ISIS o Curdi. Non ci sono le bombe e la politica. A chi importa della politica quando tutto ciò che si ha sono due stanze, un divano e un bambino a cui piace la matematica, ma vuole fare il poliziotto.
La politica non c’entra, la dimensione del quadro è quella locale, dei villaggi nella steppa, i problemi sono quelli locali – problemi ai quali pensano i notabili che “governano” il proprio Regno bevendo il çai al caldo del fuoco: le scuole di alfabetizzazione, i corsi di economia domestica, il giornale della provincia.
E quanta civiltà ci racconta Ceylan in quelle case scavate nella pietra.
C’è un mondo dentro, fatto di consuetudini e tradizioni che ci sono estranee. Che vanno conosciute per essere capite.
E non lascia nulla al caso.
Per tre ore osserviamo i suoi personaggi dall’esterno, da vicino, ma da fuori. Non ci permette di avvicinarci. Non ci sono monologhi, o riflessioni interiori a guidarci nel capire il personaggio, non uno sguardo orientato, una parola, un’inquadratura che ci faccia capire subito chi è il buono, e chi il cattivo.
Ceylan permette solo che i personaggi lentamente fluiscano dalla penna, dalla macchina da presa, e li accompagna, li segue, li modella dall’argilla con le sue mani sapienti.
E cadiamo facilmente nell’errore tutto moderno di credere di averli capiti dopo poche scene, come fosse uno di quei bellissimi film di costume che più che probabilmente avrebbe ricevuto qualche candidatura all’Oscar. Ma nel far ciò dimentichiamo cosa stiamo guardando, Chi stiamo guardando.
E per me Ceylan è tanto turco quanto greco in questo. E tutto è teatro.
Sul palco dell’Othello – dal nome della locanda di Aydin – un Agamennone euripideo, anziano e stanco, e una moderna Clitennestra, a tratti vittima, a tratti carnefice.
Non c’è traccia del manicheismo tanto caro a noi contemporanei, non ci sono sole banali sfumature a farci capire chi abbiamo di fronte. Il personaggio si crea e si distrugge, mentre tutto scorre.
E del dramma greco ha proprio “l’apparenza”: ciò che sembra non è.
E ciò che sembrava ci fosse sembrato, non era.
Ma chi è Aydin? All’inizio mi rivedo nel signor Aydin, il padrone di casa. Poco ambizioso sembra, “troppo morbido”. Scrive per il giornale locale e non si fa lusingare troppo dalle sirene dell’approvazione. Non si occupa autonomamente dei propri affari proprio per non dover far cose che lo farebbero risultare sgradevole.
Ma in fondo non è questo quello che facciamo con noi stessi? Dipingerci monocolore, di un bel colore acceso magari, ma sempre uno. E per cogliere tutte le nostre sfumature, soprattutto le più detestabili, tocca scavare. Scavare impietosamente, per trovare cose che noi stessi abbiamo nascosto sotto coltri di terra, o di neve.
È facile allora guardare al buono o al cattivo. Il signor Aydin è buono, pacato. Ismail, il fratello maggiore dell’Imam, è il delinquente, “bastardo e ubriacone”, senza lavoro e che non paga l’affitto al padrone.
Una visione, superficiale, che prepotentemente dobbiamo troncare man mano che andiamo avanti, quando ci ritroviamo non si sa neanche come in mezzo al litigio – se così possiam chiamarlo – tra il padrone e la sorella.
Litigi che non fanno urlare, non fanno tirar piatti e vomitare sentimenti, non fanno liberare ciò che ognuno prova realmente riguardo all’altro.
No, i litigi sono qui un’asta al rialzo, lucidamente controllata, in cui le parole vengono usate per ferire freddamente. Non c’è passione, solo la momentanea meschina voglia di far male, che nasce solo dalla frustrazione. La frustrazione per una vita in disparte per l’uno, per una vita da sola, per l’altra, una vita nevrotica, che ti porta a pensare di chiedere perdono al tuo ex marito per colpe che non puoi rimproverarti.
In questo il cinema turco ha una delicatezza e un’eleganza che a molti altri mancano.
Il personaggio di Ceylan non va guardato, non va analizzato, va vissuto, sentito, capito, accolto.
Va vista la terra con i suoi occhi.
Va preso con le mani quel fango che le piogge non smettono di portare, solo così potremo capire quello che con le sue immagini di rara poesia cerca di raccontarci.
Cerca di farci capire come la Turchia abbia dentro di sé una malinconia, che ogni turco accetta, porta come un fardello consapevole, sciente, non come qualcosa di cui liberarsi, come una malattia; concetto già espresso in Uzak, altro capolavoro, nel quale il regista ricorre allo stesso elemento, la neve, per purificare lo scenario, e l’uomo.
È questa la poesia del regista, che ci fa provare simpatia per un uomo, e ce lo fa odiare, e ce lo fa capire, alla fine. E gli appunti sono pieni di frasi livorose verso quell’uomo, alla metà del film.
Ma l’inverno arriva, e con lui il fiume delle cattiverie, delle cose mai dette e adesso rinfacciate, gettate in viso con crudeltà, come una colpa, rimproverate con arroganza. Ma senza mai perdere il controllo, con fredda lucidità, senza mai lasciar trasparire dagli occhi alcuna emozione.
Tutta l’opera è un climax, un caos calmo di tre ore di parole, e parole, e quando un gesto squarcia le tende del teatro sobbalziamo.
Il pugno sul vetro di un uomo ferito. Il pianto di una donna che ha scoperto se stessa. Forse.
Un uomo che cammina sui binari pieni di neve. Quella neve che ricopre sempre tutto, alla fine, attutisce, e ti lascia quasi stordito da tutto quel morbido.
Ma “i fiori sbocciano nella steppa” ci dice il regista, anche sotto la neve, e ci dice espressamente che “non si vergognerà mai di portare sulle spalle i dolori di una terra sfortunata e sterile”, della quale è un figlio orgoglioso.
E a queste parole la giovane moglie di Aydin, Nihal, abbassa lo sguardo proprio come fa il mondo, che “non oppone resistenza al male”.
Ceylan va al di là del patriottismo: non si risparmia nulla, ma ci riporta tutto, anche l’untuosità, le convenzioni, i formulari di una cultura di apparenza.
Il film è una progressione di frustrazione, livore, rabbia, cattiveria che viene da dentro, ed esce inesorabile, come in quelle mattine in cui non si sentono ragioni, e vediamo rosso, ovunque, e qualsiasi cosa è rossa, e la ributtiamo fuori, pensando davvero ciò che diciamo, ma in quel momento ciò che pensiamo è filtrato, annebbiato.
E allora parli di tuo fratello come di un mediocre, che non ha giustificazione di essere, poiché ha costruito la sua vita su un’autoesaltazione che in realtà cela, ma c’è. Che ha peccato di ὕβρις, come il vecchio Agamennone.
E parli di tuo marito come di un carceriere, che ti ha incatenata alla casa e alla beneficenza cui sola puoi dedicarti. Un carceriere che si finge docile, ma sempre un carceriere. Che ha imprigionato una moglie giovane e piena di vita in un castello. Che la soffoca col giogo della dipendenza, invece che con la mano, moderna Desdemona sul talamo di Otello.
Ma Aydin affronta tutto con esasperante pacatezza, “quale sarà mai la mia colpa? Che ti ho fatto?”. Ci sembra quasi di avvertirla, allora, quella mano, quella pressione del marito sulla moglie, che la fa impazzire, facendola rintanare in un’altra ala dell’albergo, pur di sfuggirgli e ritrovar la pace.
Ex attore, Aydin recita, e recita buonismo, recita una perfezione irrazionale, logorante, per ottenere ciò che vuole, è un miserabile che si proclama Re del suo regno, piccolo ma pur sempre regno.
E allora tutta la bontà, l’umiltà del carceriere è svelata: è solo paura, ignavia, di uscire al di fuori, nella neve, e vedersi per quello che è in realtà. Un uomo piccolo. Reso grande dalla topicità del suo potere. Un uomo piccolo che quando si prospetta la grande occasione di saltare oltre la siepe, oltre lo sguardo, per andare nella grande città, alla fine non lo prende quel treno.
“Perché aveva detto che ci sarebbe andato se non voleva assolutamente farlo? Gli era accaduto molte volte nella vita di alzare la mano alle domande dell’insegnante pur non sapendo la risposta, o di non comprare la maglia che voleva ma una più brutta allo stesso prezzo.” (Orhan Pamuk – Neve)
Istanbul diventa quindi il luogo per tutti per fuggire, ma poi nessuno ci va davvero.
Strano è chi se ne è andato, chi dice “lovely”, chi quel treno lo ha preso.
Avete presente la nostalgia? La nostalgia per ogni parte del mondo, come se terre lontane, mai viste, vi chiamassero.
Ecco, guardando i film di Ceylan solo la realtà può trattenervi dal prendere il primo treno per il Bosforo.
E poi la Neve. Solo chi ha visto la neve ricoprire il mondo, le case, i comignoli, le persone, può capire. La neve ripara tutto, ricopre tutto, azzera i conti.
I conti fatti dall’ubriacone Ismail davanti ad una donna ingenua, stupida forse, Nihal, ma mai cattiva, che crede di lavare la propria coscienza nella neve della strada che Hamdi e il bambino hanno fatto a piedi tante volte. Per chiedere perdono al padrone. Per baciare le mani, calpestando con la neve anche la propria dignità.
Secondo lui la donna ha torto, e la violenta gettando i soldi nel fuoco vivo. E l’urlo di lei mentre i soldi raccolti con tante sprovvedute buone intenzioni bruciano, si accartocciano si anneriscono, si pianta nel petto.
Mentre i soldi perdono il loro valore, acquistano il loro valore.
Riscattano l’onore di un uomo ferito, la cui dignità non si compra. Per il quale le cerimonie non esistono. Che biasima, e compatisce, il fratello, per il doverle usare, schiacciato dal peso di mantenere cinque anime, di farsi carico dei problemi di tutti, sempre con lo stesso sorriso sul viso.
E allora chi è il cattivo?
Quando stiamo per far cadere Otello sul corpo di Desdemona, ancora la neve.
Otello non è partito, c’era la neve a tardare quel treno. E lui non lo ha preso. E si è nascosto, e ammette in silenzio, nel silenzio della neve, in quello della sua testa, di aver compreso la propria esistenza, anche senza essersene andato dalla sua zona di conforto.
Ammette la sua estraneità al mondo, l’addolorata consapevolezza che la giovane moglie che si è segregata lontano da lui non lo ami più, e ammette che non avrà mai il coraggio di dirle queste parole. L’identità di essere e nulla che era quell’uomo, ora diviene.
E alla fine la cosa che sembrava più lontana da queste case di pietra nella steppa irrompe morbida, come la neve. L’amore, che fa restare un uomo che vive sentendosi rifiutato nella sua stessa casa. Che continuerà ad accogliere i turisti con garbo ed attenzione, e che quando capisce di non poter partire libera chi ha il coraggio di farlo. Libera il cavallo selvaggio appena acquistato, libera la moglie, libera di prendere qualsiasi decisione voglia. Un divorzio comodo, un matrimonio separato. Libera di poter vivere la vita come vuole, senza nessuna catena di amore a legarle le caviglie.
“I giorni sono sempre più brevi
le piogge cominceranno.
La mia porta, spalancata, ti ha atteso.
Perché hai tardato tanto?” (N. Hikmet)