Esattamente centosettantadue anni e un giorno fa, Giuseppe Verdi veniva travolto dall’entusiastico successo del suo Nabuccodonosor, un successo destinato a cambiare radicalmente la vita del compositore, sia economicamente (in pochi anni passò dal vivere nella quasi indigenza all’essere uno dei più ricchi proprietari terrieri della Bassa Padana) sia artisticamente. Ma andiamo con ordine.
Chi era Giuseppe Verdi, al tempo del Nabucco? Era un perfetto signor Nessuno: figlio di contadini, con una buona istruzione, aveva tentato – invano – l’esame di ammissione al Conservatorio di Milano (che per ironia della sorte oggi porta il suo nome); dopodiché aveva studiato musica privatamente col Maestro Lavigna e, sfruttando qualche amicizia, era riuscito a dare un’opera al Teatro alla Scala: Oberto, Conte di San Bonifacio. L’opera aveva avuto un buon successo e un discreto rientro economico e, soprattutto, aveva spinto l’impresario della Scala Merelli a mettere “sotto contratto” Verdi. Dopo l’Oberto, Merelli commissionò a Verdi un’opera buffa, intitolata Un giorno di regno, che ebbe un esito a dir poco disastroso. Questo clamoroso insuccesso, congiunto alla morte della moglie e dei due figli, spinse Verdi a decidere di smettere di comporre per quasi un anno, vivendo poco al di sopra della cosiddetta “soglia di povertà”. E vi sarebbe rimasto per chissà quanto tempo, se l’impresario Merelli non gli avesse sottoposto un nuovo libretto: Nabuccodonosor di Temistocle Solera. Dopo qualche iniziale ritrosia, Verdi si mise al lavoro ed in breve tempo l’opera era pronta per essere data alla Scala, dove fu accolta da un successo strepitoso. Da quell’episodio nacque il Giuseppe Verdi che tutti conosciamo.
Ma perché questo Nabucco ha avuto tanto successo? Perché era musica nuova. Il pubblico italiano dell’epoca non era abituato a qualcosa del genere. I maggiori operisti italiani dell’epoca erano Rossini, Donizetti e Bellini: Rossini si era ritirato dal teatro tredici anni prima e aveva lasciato come ricordo di sé una serie di capolavori da buontempone e un paio di interminabili opere serie, a metà tra Classicismo e Romanticismo, Donizetti e Bellini tendevano a scrivere opere che apparivano senza nerbo, una sorta di rassegnato pianto. Nabuccodonosor fu l’equivalente dello scoppio di una bomba: ambientazione maestosa, personaggi sanguigni, linguaggio asciutto, grandi cori di popolo e di sacerdoti, colpi di grancassa, scoppî di piatti… Per non tacere del fatto che fu dato sei anni prima dei moti rivoluzionari del 1848: vi sono, nella trama, dei non troppo celati riferimenti alla situazione italiana dell’epoca, come la proporzione ebrei:italiani=babilonesi:austriaci (fin troppo evidente anche all’epoca), oppure il fatto che il librettista Solera, fervente neoguelfo, decida di porre come guida degli ebrei il sommo sacerdote Zaccaria. Mi sembra che tutto ciò costituisca una ragionevole spiegazione del grande successo popolare del Nabuccodonosor. Quest’opera, tuttavia, segna anche un punto di svolta nella carriera artistica di Verdi.
La più evidente delle innovazioni è che il compositore non mirava a creare una serie di canzonette inframmezzate dai recitativi, così come accadeva nell’opera del Settecento e del primo Ottocento, ma voleva creare un vero dramma musicale. Immagino che questo discorso ricordi a molti di voi il buon Wagner. Difatti è il medesimo scopo che si prefiggeva il compositore tedesco, raggiunto per la prima volta nel celebre Olandese Volante, scritto all’incirca quando Verdi stava componendo il Nabucco. Così come Wagner, Verdi abolisce il recitativo secco (quello accompagnato dal clavicembalo o dal fortepiano), per sostituirlo con il recitativo accompagnato già impiegato da Gluck. Con una differenza: non c’è eccessivo divario tra la vocalità richiesta dal recitativo e quella richiesta dal numero musicale. Addirittura Verdi, dal Rigoletto in poi, abolirà del tutto questo – seppur minimo – divario. Si preferisce un modo di cantare nuovo, privo di fronzoli e orpelli, che permetta al pubblico di comprendere ciò che i cantanti stanno dicendo. Altrimenti che senso avrebbe andare a vedere un’opera? Lo stesso che avrebbe l’andare a vedere un’opera in prosa recitata da attori con problemi di dizione: non si capirebbe un tubo e tanti saluti alla catarsi aristotelica! Ed è lo stesso punto da cui prende le mosse la riforma wagneriana. Inoltre Nabucco è la prima opera in cui Verdi fa uso del meccanismo del leitmotiv, tanto caro a Wagner (ad esempio con la ripetizione della marcia del primo atto, che ritroveremo anche nel terzo e nel quarto). Poi Verdi si allontanerà da questo espediente per sottolineare emozioni e situazioni, troppo lento e macchinoso per lui, in favore di un sistema più intelligente e snello, una sorta di “leitmotiv condensato”: il sapiente uso di determinate note (come il do di Rigoletto) o di certi accordi è il perfetto equivalente del lento leitmotiv wagneriano.
Poi è chiaro che all’epoca Verdi non aveva ancora la mano sicura che riuscì ad acquisire col passare del tempo. Rispetto a Rigoletto o a Traviata, Nabucco ha un suono più esile, quasi settecentesco e, pur essendo percorso da un incontestabile flusso di puro stile verdiano, in molti punti risente ancora della passata generazione di operisti: spesso ci sono atmosfere degne della Norma di Bellini, o qualche aria che non stonerebbe in un’opera di Donizetti. Addirittura la cabaletta del secondo atto Salgo già del trono aurato di Abigaille si conclude con la tipica cadenza rossiniana (nell’arco un’opera Rossini era in grado di usarla tranquillamente anche una decina di volte). Cionondimeno, la parte solistica della stessa cabaletta contiene schemi che si possono ritrovare nell’aria Or tutti sorgete, ministri infernali del Macbeth, scritto ben cinque anni dopo, nel 1847. E già il Macbeth è un’opera innegabilmente in puro stile verdiano.
Il Nabucco non è certamente la migliore opera di Verdi, ma rappresenta comunque una tappa memorabile nel suo percorso creativo. È l’inizio: Macbeth, Rigoletto, La Traviata, Aida, Falstaff, sono tutti figli di quest’opera. L’impronta del Nabucco permane in tutte le opere giovanili (fino a Stiffelio), opere di armi, fuoco e sangue. Sembra farsi meno marcata nelle opere della maturità (da Rigoletto a Don Carlo), ma poi ricompare, ancor più intensa, nelle tre opere della vecchiaia: Aida, Otello e Falstaff. Per questo motivo non dobbiamo accostarci all’ascolto di quest’opera con la superficialità di chi cerca una curiosità, ma con la consapevolezza che ci troviamo di fronte all’origine di quella meravigliosa rivoluzione che è il teatro verdiano.
Luca Fialdini
luca.fialdini@uninfonews.it
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