Assistere alle proiezioni della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il grande festival che attira ogni anno al Lido sia i più famosi registi del pianeta sia giovani artisti desiderosi di emergere, non comporta soltanto il vantaggio di vedere in anteprima film che usciranno nelle sale soltanto dopo mesi o la soddisfazione puramente mondana di poter ammirare dal vivo attori e attrici di successo, ma anche la possibilità di arricchire la propria cultura cinematografica e di esprimere un parere sulle pellicole quasi in contemporanea con una stampa spesso faziosa e tendente all’idolatria ingiustificata come all’affossamento gratuito
Mi scuso con i lettori in anticipo, poiché non ho avuto il tempo materiale per assistere alle proiezioni di tutti i film in concorso e, pertanto, il mio resoconto risulterà giocoforza lacunoso.
“Joe”, di David Gordon Green, con Nicolas Cage, Tye Sheridan: dopo anni passati ad interpretare l’eroe buono di molti blockbuster, Nicolas Cage ritorna nel circuito indipendente dove ha mosso i primi passi come attore interpretando Joe, un ex galeotto che decide di redimersi aiutando un ragazzino (Sheridan) vittima di una famiglia disastrata. Se si eccettua l’ottima interpretazione del giovanissimo Tye Sheridan, già noto alla ribalta per il discusso “Tree of Life” di Terrence Malick, del film c’è ben poco da salvare. Sceneggiatura tutt’altro che originale e ripetitiva, Cage inespressivo come in tutti i suoi lavori precedenti ed interprete di uno stereotipo, quello del “redneck” texano, già visto troppe volte in passato.
Voto: 5
“Philomena”, di Stephen Frears, con Judi Dench, Steve Coogan: Ricerca degli affetti perduti e contrasto tra fede e materialismo, commozione ed ironia sono solo alcuni degli aspetti dell’opera di Frears, che si avvale della performance stellare di una Judi Dench da Oscar e di un ottimo Steve Coogan, complice e spalla d’altissimo livello per la M di 007. Philomena (Dench), un’anziana irlandese dolce e ingenua, ma tenace, decide di ritrovare il figlio Anthony, ceduto ad una famiglia statunitense dal convento di suore in cui aveva partorito. Per perseguire il proprio obiettivo, contatta Martin Sixsmith (Coogan), ex giornalista della BBC caduto in disgrazia, che crede subito di aver trovato un’ottima storia da dare in pasto alla stampa. Il viaggio dei due protagonisti svelerà i lati più nascosti del loro io e, alla fine, più del risultato della ricerca, sarà importante ciò che entrambi avranno imparato l’uno dall’altra. E’ presente un forte attacco alla Chiesa Cattolica, ma sarebbe un errore ritenere che il film sia imperniato solo su quest’ultimo tema, che è solo un aspetto di una vicenda ben più ampia. La struggente malinconia suscitata dalla storia di Philomena viene sapientemente calmierata da un’ironia mai eccessiva.
Voto: 8
“Child of God”, di James Franco, con Scott Haze: il giovane Franco torna alla regia e dimostra un coraggio encomiabile. Molti suoi colleghi, coetanei e non, preferiscono lavorare ai classici blockbuster multimilionari, facendo leva su una fama già affermata e su un aspetto da fotomodelli, mentre lui, James, ha deciso di realizzare un film independente a basso budget con un amico come attore protagonista. La pellicola, divisa in tre atti, tratta della storia di Lester Ballard (Haze), un serial killer pervertito e necrofilo che uccide senza controllo molte giovani donne nella Contea di Sevierville, nello stato americano del Tennessee. Franco mostra una grande attenzione per i dettagli e può contare su un’eccellente interpretazione di Haze, ma il film appare a tratti nebuloso e tirato per le lunghe, con gravi leggerezze estetiche (la barba di Ballard sempre uguale nonostante la vita da reietto, i denti perfetti, le munizioni apparentemente senza limite) abbinate ad un’ottima fotografia e a degli stacchi d’inquadratura lenti come era di norma fino agli anni ’90. Nel complesso, troppi buoni elementi per stroncarlo, ma non abbastanza da parlarne come di un film da vedere.
Voto: 6-
“Parkland”, di Peter Landesman, con Paul Giamatti, Billy Bob Thornton, Ron Livingston, Zac Efron, James Badge Dale, Colin Hanks, Tom Welling: dopo il famoso “JFK” di Oliver Stone, una nuova pellicola sulla morte di John Fitzgerald Kennedy, stavolta concentrato sugli attimi immediatamente successivi all’attentato e sui due giorni precedenti. Il film è corale, con la vicenda vista attraverso gli occhi di molti personaggi, e presenta un ritmo incalzante tipico delle grandi produzioni statunitensi. Nonostante la ferita ancora viva nel popolo americano, viene descritta con sorprendente umanità la figura dell’attentatore Lee Harvey Oswald e, soprattutto, quella del fratello Robert (Dale). Molto bella la scena finale, così come l’interpretazione del giovane Zac Efron, sempre più distante dallo stereotipo del ragazzino di High School Musical, nei panni del chirurgo specializzando Francis “Jim” Carrico che prestò i primi soccorsi al Presidente morente. Ottimi anche Paul Giamatti nella parte di Abraham Zapruder, l’uomo del celebre filmato dell’attentato, e Tom Welling in quella della guardia del corpo Roy Kellerman. Sicuramente non un capolavoro, ma un lavoro ben riuscito capace di spingere lo spettatore a più di una riflessione.
Voto: 7
“Kaze Tachinu”, di Hayao Miyazaki: il maestro del cinema d’animazione giapponese chiude in bellezza la sua strabiliante carriera con un film, “Il vento si alza”, dalla poesia più unica che rara e che offre numerosi piani di lettura. La storia narra di Jiro Horikoshi, un giovane che sogna di costruire dei bellissimi aeroplani. Lavorando sodo e dedicando anima e corpo alla realizzazione delle sue ambizioni, il giovane Jiro riuscirà a diventare uno dei più famosi e ricercati ingegneri aeronautici del Giappone e costruirà, per conto della Mitsubishi, il caccia più letale della Seconda Guerra Mondiale, lo “Zero”. Nonostante questo, Jiro ritiene che la guerra sia profondamente ingiusta e che gli aerei siano opere d’arte, non strumenti di morte. Sullo sfondo della vicenda, l’amore per la giovane Nahoko, la progressiva degenerazione della situazione politica mondiale e, soprattutto, il titanico quanto silenzioso sviluppo industriale del Giappone, capace di passare, dal Paese prevalentemente agricolo degli inizi del Novecento, alla superpotenza industriale dei giorni nostri.
Voto: 9
“Tom à la Ferme”, di Xavier Dolan, con Xavier Dolan: il canadese Dolan, molto apprezzato in patria, approda alla Mostra con un thriller molto ben congegnato, chiaramente ispirato ad Hitchcock e con alcuni omaggi, non troppo velati, a Quentin Tarantino. Tom (Dolan), pubblicitario omosessuale di Montreal, si reca in campagna per assistere alle esequie del suo defunto compagno Guillaume. Qui incontra il fratello di quest’ultimo, Francis, che vuole a tutti i costi risparmiare alla madre la verità sulla sessualità del figlio. Nel tentativo di costruire l’immagine di un Guillaume maschilista e donnaiolo, Francis segrega Tom in casa sua e lo obbliga a vivere nella fattoria di famiglia. L’intero film è basato sul dilemma interiore di Tom, che desidera in cuor suo fuggire, ma che non riesce a reprimere un’istintiva attrazione nei confronti di Francis. Il ventiquattrenne Dolan offre al pubblico un’ottima fotografia ed un ritmo incalzante senza mai scadere nell’eccesso, riuscendo a creare un’atmosfera di tensione degna dei colleghi più blasonati.
Voto: 6,5
“The Zero Theorem”, di Terry Gillian, con Christoph Waltz, David Thewlis, Matt Damon, Ben Whishaw, Melanie Thierry: il visionario Gillian, autore di “Brazil” e de “L’esercito delle dodici scimmie”, torna in azione con un film futuristico molto vicino a “Matrix” per le tematiche e al capolavoro di Kubrick “Arancia Meccanica” per la fotografia. In un mondo dominato dalle corporazioni e dal consumismo, in cui non importa a cosa si lavori, basta che si faccia senza fiatare, il problematico e complessato Qohen Leth (Waltz) viene incaricato da Management (Damon) di risolvere il cosiddetto “Teorema Zero”, la dimostrazione che tutto viene dal niente e che niente è ciò che attende l’Universo intero alla fine della sua vita. Il visionario ed onirico finale lascia spazio a molteplici interpretazioni, ma suscita fin dall’inizio interrogativi esistenziali seri e ben delineati. Ottima interpretazione, oltre a quella di un Waltz avviato verso la definitiva consacrazione, di Melanie Thierry nei panni della giovane squillo Bainsley.
Voto: 7,5
“Moebius”, di Kim Ki-Duk: il vincitore dell’ultima Mostra torna a Venezia, seppur non in concorso, e lo fa in grande stile. No, non ha firmato un capolavoro come “Ferro 3” o uno struggente e viscerale ritratto come “Pietà”, ma un vero e proprio kolossal del trash. Con la scusa di descrivere lo sfacelo di una famiglia, il regista coreano realizza novanta minuti di evirazioni esplicite, di sessualità perversa, di incesti spudorati e di masturbazioni a base di pietra dura sfregata sulla pelle e di coltelli conficcati nelle spalle (!), con tanto di scene tragicomiche come l’improvvisa erezione del Figlio alla vista della madre, degna del peggior Scary Movie, o come il disperato inseguimento del “ladro di falli” con conseguente colluttazione in mezzo alla strada. Alcuni hanno abbandonato la Sala Perla del Lido in preda alla nausea, mentre altri, come il sottoscritto, hanno riso dall’inizio alla fine del suicidio artistico del maestro orientale. Presenti, ovviamente, anche i classici pecoroni che inneggiano al capolavoro solo perché opera di Kim Ki-Duk. Da salvare solo l’ottima interpretazione degli attori protagonisti, ma sarebbe come dire che il Nazismo meriti di essere salvato perché i treni arrivavano puntuali.
Voto: 3
“Ana Arabia”, di Amos Gitai, con Yuval Scharf: Amos Gitai presenta alla Mostra un film piuttosto breve, realizzato su un unico piano sequenza, che rappresenta uno spaccato di Giaffa, in Israele, in cui alcune famiglie arabe ed ebree vivono in armonia e si aiutano l’una con l’altra. La giornalista Yael (Scharf) giunge sul posto per scrivere un articolo su una superstite dell’Olocausto convertitasi all’Islam, ma rimane profondamente colpita dalla semplice umanità degli abitanti del luogo e dal loro ricchissimo patrimonio di testimonianze e di storie da raccontare. Alla fine della sua permanenza nella comunità, Yael fa ritorno a casa, ma sente di non essere più la stessa rispetto a quando è entrata. Oltre alle ottime interpretazioni degli attori, la pellicola offre molti spunti di riflessione sulla annosa questione palestinese, ma senza iniezioni di sterile retorica. La giornalista rappresenta l’uomo comune che visita per caso quei luoghi, mentre lo stile di recitazione e l’ambientazione si avvicinano molto al maestro italiano Ermanno Olmi per semplicità ed eleganza.
Voto: 7
“Under the skin”, di Jonathan Glazer, con Scarlett Johansson: la splendida Scarlett Johansson non basta a salvare un film evidentemente mediocre. Una misteriosa aliena (Johansson) sbarca sulla Terra e comincia ad adescare uomini, che uccide in modo incomprensibile e con scopi dubbi. La soluzione del mistero, a lungo attesa, non arriverà mai, soppiantata da una sequenza finale assurda e indecifrabile ai limiti della decenza. Molta stizza ed ironia in sala, con tanto di buuu e di fischi sui titoli di coda. La colpa, ovviamente, non è della pur non eccellente Johansson, ma di un regista visibilmente in crisi d’identità che cerca di riproporre motivi kubrickiani e tematiche da horror anni ’50 come “L’Invasione degli ultracorpi”.
Voto: 4,5
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