A quattro anni dall’inizio delle ostilità, la Guerra Civile Siriana è entrata in una nuova e cruciale fase, non meno sanguinosa delle precedenti.
La grande offensiva primaverile dell’ISIS, che aveva portato alla conquista della città romana di Palmira, è stata bloccata sulla strada per Homs dall’esercito regolare siriano e dalle milizie filo-governative. Ad una fase di stallo durata alcune settimane è seguita una decisa controffensiva delle forze leali a Damasco, le quali hanno riconquistato molte delle posizioni perse in precedenza; pare, addirittura, che alcuni commandos delle unità speciali stiano liberando l’area archeologica della stessa Palmira, la cui caduta a metà maggio aveva scatenato il panico e l’attenzione dei media di tutto l’Occidente.
Dall’altra parte del Paese, al confine con il Libano, le truppe lealiste e le milizie sciite, affiancate dalle unità Quds iraniane, sono ormai in procinto di riconquistare il piccolo centro abitato di Zabadani, al cui interno è asserragliato un migliaio scarso di ribelli appartenenti a varie formazioni minori. Questa battaglia, apparentemente insignificante, rappresenta invece uno snodo fondamentale per l’andamento del conflitto. Zabadani, infatti, è l’ultima roccaforte degli insorti situata a ridosso della frontiera libanese, per il resto saldamente nelle mani delle forze di Assad. La sua riconquista permetterebbe al rais di Damasco di “appaltare” la gestione dell’area agli Hezbollah, già impegnati in molte battaglie nella zona e le cui basi si trovano proprio nel Paese dei cedri, spostando migliaia di uomini e centinaia di mezzi, per lo più inquadrati nella elitaria IV Divisione Corazzata di suo fratello Maher, su altri fronti come, ad esempio, quello di Idlib, a nord-ovest, dove i guerriglieri qaedisti di Al-Nusra rappresentano una minaccia costante per la regione costiera, nei cui porti principali di Latakia e di Tartus affluiscono i principali approvvigionamenti di armi e di equipaggiamenti dalla Russia, o come quello orientale, dove una definitiva riconquista di Palmira metterebbe in sicurezza la strada per Homs dall’avanzata dell’ISIS e ripristinerebbe i contatti con la roccaforte governativa di Deir Ez-Zor, isolata da più di un anno.
Diversa è la situazione nel nord del Paese. La strage di Kobane del 4 luglio non è stata altro che un’azione dimostrativa messa in pratica da un centinaio di jihadisti votati al martirio, la quale non ha cambiato l’equilibrio di forze nel settore. Di fatto, con la vittoria curda nella città frontaliera di Tell-Abyad, la regione del Kurdistan siriano, chiamata Rojava dai suoi abitanti, è stata unificata.
L’intera Siria settentrionale è ora nelle mani delle milizie YPG, che, per perseguire il loro obiettivo, cooperano tutt’ora sia con il governo di Assad che con varie formazioni ribelli. Dopo una lunga e sanguinosa battaglia, anche l’importante città di Hasakah, situata al margine orientale del Rojava e a ridosso del confine iracheno, è stata strappata alle mani del Califfato ed è attualmente presidiata sia dai miliziani curdi che dai soldati governativi.
Non solo gli YPG controllano la principale strada per Raqqa, la capitale dell’autoproclamato Stato Islamico, ma hanno anche quasi interdetto ogni collegamento tra i suoi guerriglieri e il confine turco, la loro principale fonte di uomini e di approvvigionamenti. In questo senso, non può passare inosservata la decisione del presidente turco Erdogan di concedere alla coalizione a guida americana l’utilizzo della base aerea di Inçirlik, situata in Turchia, e di ordinare alla sua stessa aeronautica militare una serie di raid contro le posizioni del Daesh, seppur senza violare lo spazio aereo siriano.
Difficile pensare che questo repentino cambiamento di posizione di Erdogan nei confronti del Califfato non sia stato determinato, oltre che dal citato rovesciamento di fronte sul campo di battaglia, dalle recenti elezioni politiche, che, pur vedendolo vincitore, non gli hanno conferito la maggioranza assoluta che gli avrebbe consentito di governare il Paese da solo. Che si tratti di un’apertura nei confronti dei kemalisti laici e filo-occidentali?
L’opzione più credibile sarebbe quella di un accordo con i nazionalisti, più vicini ideologicamente al partito AKP, ma non sono escluse sorprese a breve, quando il presidente varerà un governo di coalizione la cui composizione influenzerà inevitabilmente l’assetto geopolitico dell’intero Medio Oriente. Occorre precisare, inoltre, che le incursioni turche si stanno abbattendo non solo contro il Daesh, ma anche contro le posizioni dei guerriglieri del PKK curdo situate nel nord dell’Iraq.
Per concludere la disamina sulla guerra in Siria, l’impressione è che, con il rafforzamento del fronte governativo, con l’intervento turco a fianco della coalizione e con l’imminente offensiva curdo-irachena su Mosul, che costringerà l’ISIS a spostare migliaia di combattenti in Iraq, il 2015 possa essere un anno di svolta per le sorti di un conflitto che ha già provocato, secondo varie stime, quasi trecentomila morti e quattro milioni di sfollati.
Marco D’Alonzo
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