Site icon Uni Info News

Una guerra senza bombe

Coronavirus camion esercito Bergamo

Riportiamo un drammatico messaggio inviato da un nostro lettore, cremonese ma residente a Livorno.

“Ho sempre avuto il cuore diviso in tre. Per Bergamo, in particolare la Val Seriana, dove ci sono molti miei amici, per Brescia, dove é nato mio figlio Raul, per Cremona, dove ho vissuto tanti anni e dove sono nato. Senza nessun campanilismo, a parte qualche battuta, mi sono sempre giocato in solitaria questo grande derby interno. Mai avrei pensato di farlo un giorno con i numeri di una pandemia e con i miei tre posti del cuore al centro di questa. Bergamo, in alto alla classifica dei numeri assoluti. Brescia, che la tallona. Cremona, che invece sbaraglia tutti nella proporzione con il numero degli abitanti.
E i numeri, che non ho mai amato in modo particolare, mi stanno facendo riflettere. Parto da quello che vivo nel quotidiano, perché forse in questo momento è quanto dovrebbe fare ognuno di noi, perché forse solo collettivizzando quanto stiamo vivendo, la paura, la rabbia, l’incognita, il dolore, le riflessioni, solo così potremo in qualche modo uscirne insieme. Perché non possiamo più farlo parlandoci e guardandoci, ma spesso sembra che ognuno rimanga chiuso dentro di se’, rischiando di non riuscire a mantenere l’equilibrio.

Il territorio cremonese è piccolo, in tutto ci sono circa 359 mila abitanti. Facendo una proporzione con i dati diffusi ieri del numero dei contagiati, questi sono 1 ogni 124 persone.
1 ogni 124.
Provate a farvi venire in mente quante persone conoscete voi.
E sono i numeri ufficiali, perché ci sono poi quelli ufficiosi, quelli che ora stanno uscendo allo scoperto anche sui media e che qui ci diciamo da giorni: sono sfasati, i contagiati sono molti molti di più. Perché ognuno di noi ha amici, vicini, parenti che da settimane non stanno bene, hanno la febbre alta, la tosse, sono spossati. E sono di fatto lasciati a sé stessi, curati al telefono dai medici di base. Perché i tamponi te li fanno solo se passi dall’ospedale, e in ospedale ormai ci puoi andare solo se sei molto grave. C’è un silenzio irreale che sto sentendo da casa, dagli amici. In tantissimi si trovano in questa condizione. Come una mia cara amica, che parlando della sua situazione qualche giorno fa mi ha detto: “Se tutto va bene non lo sapremo mai se stiamo curando questo virus”.

Poi ci sono i deceduti, il dolore più grande. Un’intera generazione sta scomparendo nei nostri paesi e nelle nostre città. In una solitudine che toglie il fiato, se ci pensi. Fin da piccoli, a scuola, ci hanno insegnato che uno degli elementi costitutivi delle civiltà è il culto dei defunti e questa situazione ci sta imponendo di rinunciarvi. E la percezione che si ha è che anche i deceduti siano più di quanti risultano, perché se muori a casa o in una RSA (dove si stanno vivendo situazioni allucinanti) il tampone non te lo fanno. E io non voglio neanche sentirmelo dire che chi muore, nella maggior parte dei casi, aveva comunque almeno altre 2 o 3 patologie, perché accetto il dato, ma quello che più mi interessa è che erano persone che magari avrebbero ancora potuto vivere altro tempo. Potendosi curare. Perché l’altra cosa che ci sta mancando temo sia questa: la possibilità di curarsi. Non solo dal virus, ma da qualsiasi altra patologia, che purtroppo in quarantena non ci si è messa.

Non ho nessuna soluzione, ma sicuramente non credo che tutto debba ricadere solo sulle spalle di chi lavora negli ospedali.
E non so nemmeno se sia ora il momento per farlo, ma di certo qualcuno prima o poi dovrà assumersi la responsabilità di quello che è successo, di un sistema sanitario che di fatto è collassato a fronte di anni di tagli alla sanità. Qualcuno dovrà renderne conto e noi non dovremo essere indulgenti. Questa è una guerra, una guerra, senza bombe. Però so che non avrei mai pensato di trovarmi in una situazione simile. È passato poco più di un mese dai primi casi di positività scoperti a Cremona. I primi casi poi sono diventati tanti, poi i conoscenti, poi i decessi. Poi non li conti neanche più… E non lo so se sia stato fatto tutto quello che si poteva fare, però so che il rimpallo di responsabilità tra regione e governo è una delle cose più disgustose di questo momento.
So che in una città di 72 mila abitanti c’è un’acciaieria in cui lavorano 2400 persone che neanche oggi si è fermata.

Non voglio, davvero, entrare nel dibattito che imperversa in questi giorni, tra gli “stai a casa” e gli stati di polizia. Però non voglio perdere nemmeno di vista la realtà.
Che mi dice che sicuramente da una presa di coscienza e da un comportamento individuale nasce quello collettivo, che guarda il bene comune.
Ma anche che ad esempio ci sono case e case: ci sono quelle con il giardino e quelle che non hanno nemmeno un balcone di un metro quadro; ci sono le case in cui si sta larghi in quattro e quelle in cui si soffoca in due; ci sono case in cui la solitudine risuona; ci sono quelle in cui c’è musica e armonia e quelle in cui invece c’è una violenza da cui si dovrebbe solo fuggire; ci sono le case in cui persone si sentono schiacciate dai muri perché vivono fragilità psichiche o fisiche e quelle in cui tutto sommato c’è il piacere di riscoprire la pigrizia.

Insomma, so solo che in tutto questo, dove ognuno di noi con la sua vita e la sua quotidianità è chiamato ad una prova, in tutto questo, che è DAVVERO terribile, dovremmo prima di tutto cercare di rimanere in equilibrio insieme e di non perdere l’empatia, la capacità di comprendere fino in fondo le altre persone: solo così potremo continuare a restare umani.

E a Livorno per adesso va di lusso.”

 

Fabio di Cremona.

Exit mobile version