Volendo analizzare il periodo che sta attraversando l’Unione Europea, non si può negare l’avanzata di un’inclinazione disgregativa, sempre più attraente verso le pance degli europei. E’ molto difficile risalire alle cause di questa tendenza, poiché sono molteplici, perciò sarebbe errato dare conto solo alla visione che le imputa ai cittadini, oppure alla sua opposta che vede nell’Unione un’associazione a delinquere, congegnata per schiacciare le sovranità nazionali in nome del Mercato. In questa grande incertezza i partiti tradizionali sembrano aver raggiunto il culmine del loro declino. Difatti sono decenni che si sente parlare della crisi dei partiti storici, se ne celebrano spesso i funerali, eppure sono sempre presenti nelle “stanze dei bottini”. Tuttavia per non fare di tutta l’erba un fascio, è utile fare delle distinzioni tra i vari stati europei, in cui quest’ondata euro-scettica si presenta con vari volti e diversi connotati storici, ma unisce tutti nella lotta contro l’establishment. Allora come non partire dal Regno Unito, oramai membro uscente dell’Unione? Nonostante si siano spese molte parole, forse anche più del dovuto, il fenomeno“brexit” continua a interessare molti, soprattutto per lo stato di stallo che sta attraversando il Paese a seguito degli esiti del referendum. Dalla reazione che ha avuto la classe politica britannica si direbbe che nessuno fosse preparato per il reale abbandono del Regno Unito all’Unione Europea. Non a caso David Cameron si è dimesso, perché avendo sostenuto il fronte del“remain” ha dichiarato di non poter essere il Primo Ministro più adatto per guidare il paese in questa fase di rottura con l’Unione Europea. Gli stessi leader dello schieramento pro-brexit hanno iniziato a rimangiarsi promesse fatte durante la campagna elettorale, come Farage che aveva garantito il recupero di 350 milioni di sterline dall’Unione Europea da destinare alla sanità britannica, per poi smentirsi solo dopo la vittoria del suo fronte. Dichiarando di aver raggiunto il suo obiettivo si è dimesso questa mattina dalla guida del suo partito, lo UKIP. Lo stesso Boris Johnson, frenato molto probabilmente dal suo partito, si è tirato indietro dalla corsa che sta spaccando sempre più i tories per decidere il successore di Cameron. Pure il Partito Laburista non se la passa affatto bene, poiché tutti i deputati, tranne 40, hanno sfiduciato il leader Jeremy Corbyn. Ciononostante si tratta più di un atto simbolico, che per quanto grave non ha portato alle sue dimissioni, infatti ha dichiarato che la sua responsabilità è verso la base elettorale laburista, da cui venne eletto tramite primarie, e non verso i membri di partito. In tutto questo caos è evidente come il Regno Unito stia cercando di prendere tempo prima di formalizzare la richiesta d’uscita, la quale può essere presentata unicamente dallo Stato Membro che vuole lasciare l’Unione. Però l’Europa non sembra voler attendere tutto questo tempo, e già la settimana scorsa il Parlamento Europeo ha sollecitato la Gran Bretagna affinché presenti al più presto tale richiesta.
Un altro Stato Membro che desta preoccupazioni è nuovamente l’Austria: ebbene sì, se un mese fa il pericolo che Hofer, candidato dell’estrema destra, diventasse Capo di Stato appariva scampato, adesso si dovrà ripetere il ballottaggio che per un soffio portò alla vittoria di Alexander Van der Bellen. Infatti la Corte Costituzionale austriaca ha accettato il ricorso, mosso dal partito di Hofer, per irregolarità nello spoglio dei voti per posta, che sono stati indispensabili a Van der Bellen per sconfiggere il suo avversario. Perciò adesso si teme che gli effetti della brexit possano favorire l’avanzata del candidato anti-immigrati, vedendo coagularsi le forze antisistema ed euro-scettiche attorno al suo nome.
La Spagna invece è già tornata al voto domenica 26 Giugno, e l’esito che è uscito assomiglia ad una fotografia ingiallita di sei mesi fa, se non per qualche cambiamento. Infatti dalle elezioni legislative dello scorso 20 dicembre scaturì uno scenario così frammentato da non portare alla nascita di un nuovo Governo, si pensi che è più di un anno che il Parlamento spagnolo non riesce ad approvare alcuna legge. I nuovi risultati hanno mostrato un rafforzamento del Premier uscente Rajoy, che arrivando primo col 33% dei consensi ha fatto guadagnare 137 seggi al Partito Popolare, 14 in più rispetto alla precedente tornata elettorale. D’altronde la soglia dei 176, che darebbe la maggioranza per governare, è ancora ben lontana, e l’alleato più naturale per il PP, Ciudadanos, avendo perso 8 seggi, è diventato più irrilevante della scorsa volta. Il Partito Socialista e Podemos invece hanno perso terreno, i primi essendo stati privati di 5 seggi, gli altri avendoli mantenuti a quota 71, nonostante l’alleanza con Izquierda Unida che ne avrebbe dovuti portare di nuovi.
Pure in Germania si è verificato ciò che si è cercato di scongiurare da tempo, ovvero la nascita del movimento, alla destra della CDU, Alternativa per la Germania. Visto il calo di consensi che si sta abbattendo sull’SPD, fanno preoccupare l’elezioni che si terranno l’anno prossimo, che potrebbero premiare questo nuovo partito.
Sempre nel 2017 andranno al voto due Paesi fondatori dell’Unione, la Francia e l’Olanda, e gli occhi saranno puntati proprio sui loro pariti euro-scettici come il Front National e il Partito per la Libertà. Da essi potrebbe generarsi un’ulteriore spinta verso gli oppositori al progetto europeo, difatti non è un caso che nel 2005 proprio questi due stati, attraverso due referendum, decretarono una battuta d’arresto al processo d’integrazione europea. Per l’appunto più di dieci anni fa, si cercò di dare all’Unione Europea una base costituzionale, però il tentativo andò fallito, e oggi alcuni paesi devono ancora ratificare tale progetto, pure la Gran Bretagna che è pronta ad andarsene.
La forte instabilità che si sta riversando nel vecchio continente, non è l’unica sfida all’orizzonte, infatti preoccupano sempre più il fenomeno terroristico di matrice islamica e la crisi economica, da cui l’Europa fatica ad uscire. Malgrado ciò, invece di una risposta unitaria, quale potrebbe essere un esercito e una polizia federale comune oppure un’unione economica e non solo monetaria, sta prendendo piede l’idea di un’Europa a due velocità, a due binari, sempre più divisa. Nei giornali si invoca spesso l’utilità di due Europe, una settentrionale e una meridionale, e di mini euro e di un euro più forte, e tali frammentazioni dovrebbero giovare proprio a quei paesi che non riescono a spezzare la spirale recessiva. In realtà in questa visione liberista, la più diffusa tra la classe dirigente europea, c’è la volontà di allontanare questi stati dai più forti, poiché ritenuti una zavorra. Non è un caso se questi hanno coniato l’acronimo “PIGS” (maiali in inglese) per indicare e denigrare al tempo stesso, questa regione europea più in difficoltà, composta da Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Lo scenario che si prospetta non è di certo dei più rosei, ma è per questo che occorre una nuova stagione all’insegna del coraggio, però che non sia frutto di soli statisti, che calano questo spirito dall’alto. Bensì sarà indispensabile la partecipazione popolare, quella brutta bestia, disprezzata dai politologi in quanto portatrice di ulteriori complicazioni ai problemi esistenti, tanto da affermare, nel nome del pragmatismo, che una democrazia efficiente è quella meno partecipata.