Additata dal mondo occidentale come modello di democrazia islamica, la Turchia rischia di trasformarsi in quel guazzabuglio di sangue e paura tipico delle dittature arabe. La crescente polarizzazione della società, l’inasprirsi delle tensioni sia sul fronte interno che estero e l’arresto della crescita economica, di cui Recep Tayyip Erdoğan si era proclamato paladino, stanno gettando il Paese nel caos. Tra la popolazione sta prendendo piede un senso di incertezza riguardo al futuro. Le persone hanno capito che l’esistente modello di sviluppo politico e sociale è ormai affaticato. E la colpa è di una politica incoscientemente autoreferenziale.
Il primo errore di Erdoğan è stato quello interrompere il processo di pace con il Pkk, il partito dei lavoratori del Kurdistan. Un processo fortemente soggetto ai capricci del Sultano e di Abdullah Öcalan, leader del partito, ma che è stato capace di mantere il cessate il fuoco per più di due anni, dal 2013 fino al 2015. La ripresa delle ostilità ha avuto, fra i vari effetti, un rafforzamento dell’esercito, le cui ingerenze nella vita politica del Paese erano state limitate da una serie di riforme operate nei primi anni 2000 dall’allora primo ministro Erdoğan.
Ma il Sultano vuole essere ricordato. E probabilmente vuole essere ricordato come l’uomo che ha posto fine una volta per tutte al conflitto curdo-turco. Per riuscire nell’impresa è stato costretto a stringere un’alleanza con l’élite militare, dimentico di quel susseguirsi di colpi di stato per mano dei militari di cui è costellata la storia recente del Paese. La cooperazione fra esercito e governo è stata sotto gli occhi di tutti nell’autunno del 2015, quando Ankara ha concesso carta bianca ai militari durante un’operazione condotta ai danni della minoranza curda, nel sud est del Paese.
Una spaventosa leggerezza che rischia di preparare il terreno per un nuovo golpe. Secondo gli analisti, la minaccia potrebbe trasformarsi in realtà con il peggiorare della crisi politica e il proliferare di nemici esterni. Il vero fattore determinante rimane, però, l’eventuale inasprirsi della questione curda, ormai degenerata in vera e propria guerra civile, seppur ancora “tiepida”. I curdi in Turchia sono 20 milioni, circa il 15% della popolazione. Eterogenei da un punto di vista strettamente politico, i curdi possono essere divisi in tre gruppi: da una parte i simpatizzanti del Pkk, dall’altra i curdi-alawiti, di orientamento socialdemocratico ed infine la maggioranza conservatrice, inizialmente fedele all’Akp, il partito di Erdoğan. Perfettamente assorbiti all’interno del sistema politico e sociale del Paese, i conservatori hanno finito col sentirsi traditi in seguito al rifiuto iniziale da parte del governo di offrire aiuto alla città curda di Kobane, assediata dai militanti dello Stato Islamico, nel settembre del 2014. Una spaccatura che è divenuta ancora più profonda con la decisione di sospendere ogni forma di dialogo fra governo e minoranza curda.
Secondo Pavel Shlykov, professore associato dell’Istituto di Studi asiatici e africani dell’Università di Mosca, a frenare i militare sarebbe la paura di non godere dell’appoggio della popolazione. Ma l’esercito è anche consapevole di giocare da contrappeso nel porre un limite alle ambizioni di Erdoğan in fatto di politica estera, scongiurando il coinvolgimento diretto della Turchia nel conflitto siriano. Un intervento nella guerra civile in Siria porterebbe con sé una serie di gravi implicazioni diplomatiche, come l’aumento delle tensioni fra Russia e Stati Uniti e la necessità per Ankara di dover combattere su più fronti. Un rischio di cui solo l’esercito sembra essere consapevole.
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