In Turchia ha vinto il terrore e la paura del caos. Le elezioni dello scorso 1°novembre hanno generosamente ricompensato la politica militaresca e autoritaria dell’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo) del presidente Recep Tayyip Erdoğan, fregiandolo con ben il 49,3% delle preferenze. A dispetto di ogni previsione, il partito islamico conservatore ha ottenuto 316 seggi in Parlamento, conquistandosi la maggioranza assoluta per la quarta volta di fila.
Un record che però ha lasciato l’amaro in bocca al ‘Sultano‘, che si trova a disporre di un numero di parlamentari insufficiente per poter modificare la costituzione. Sono infatti 14 i seggi che separano Erdoğan dal suo sogno di svolta presidenzialista, una mancanza a cui l’ex sindaco di Istanbul potrà forse sopperire con una compravendita di deputati dal Mhp (Partito del Movimento Nazionalista), i nazionalisti di estrema destra guidati da Devlet Bahçeli. Ipotesi non troppo inverosimile, data la fine del cessate il fuoco con i curdi del Pkk (Partito dei Lavoratori de Kurdistan) e il conseguente stallo del processo di pace, processo al quale l’Mhp si è sempre detto contrario. Improbabile se non inconcepibile, invece, l’ipotesi di un accordo con i kemalisti del Chp ( Partito Popolare Repubblicano), che si sono mostrati ostili al progetto presidenzialista dell’Akp e ai quali un eventuale accordo con il presidente procurerebbe un giustificato imbarazzo nei confronti del proprio elettorato.
Ma le problematiche che Erdoğan si troverà ad affrontare non sono solo di carattere politico. Il miracolo economico, di cui il presidente si faceva forte, sembra ormai un lontano ricordo. Oggi la crescita economica è in fase di stallo e la Turchia viene annoverata fra le ‘Fragile Five’, ovvero fra le cinque economie emergenti particolarmente vulnerabili sotto il profilo valutario. Alla crisi economica si va ad aggiungere la questione della messa in sicurezza dei confini. Dopo il vertice europeo dello scorso 16 ottobre, sembra ancora lontana la possibilità di un’intesa fra Turchia e Unione Europea sulla questione della distribuzione dei migranti, nonostante i 3 miliardi di euro per la gestione dei campi profughi previsti dall’accordo .
«Oggi è una vittoria per la nostra democrazia e il nostro popolo. Speriamo di servirvi al meglio per i prossimi quattro anni e di tornare di fronte a voi ancora una volta nel 2019», ha commentato il premier turco Ahmet Davutoglu dalla sua abitazione nella città di Konya,
roccaforte del Akp. Ma le elezioni si sono svolte in un clima tutt’altro che democratico.
Il partito filo-curdo Hdp (Partito democratico del popolo) di Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ parla di «elezioni sotto assedio» con rappresentanti dell’opposizione arrestati, rimozioni di manifesti elettorali ritenuti offensivi nei confronti del presidente Erdoğan, chiusura di giornali e canali televisivi, attacchi contro le sedi dell’Hdp e intere aree del sud-est militarizzate per la lotta contro il Pkk. «Questa – ha dichiarato Demirtaş – non è stata un’elezione corretta, non abbiamo potuto fare campagna perché dovevamo proteggere la nostra gente da un massacro».
A dispetto delle presunte irregolarità e della deriva autoritaria del governo, un esecutivo monocolore costituisce una prospettiva piuttosto rassicurante per le potenze occidentali, che vedono in Erdoğan l’unica forza in grado di garantire la stabilità non solo in Turchia ma anche in tutto il Medio Oriente.«Se la nostra nazione sceglierà un governo monocolore, creerà i presupposti per un ritorno al clima di stabilità e fiducia che abbiamo vissuto per 13 anni», aveva sottolineato più volte il fondatore dell’Akp. E domenica scorsa i turchi hanno barattato lo spettro dell’ instabilità con la sottomissione a un sistema che, sempre più, sembra faticare a sbarazzarsi delle tendenze antidemocratiche ereditate dal 1980.
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