Eppure l’insediamento di Trump a Washington aveva portato tante belle aspettative.
Finiti gli anni della guerra fredda con Obama, Erdoğan si era finalmente aperto al disgelo. C’erano state tante promesse, Trump avrebbe addirittura rapito Gülen, per lui.
Ma alla fine si sa, tutti i nodi vengono al pettine.
A chi aveva fatto notare, già dalla prima telefonata ufficiale, che tra i due Paesi esisteva un problema di organizzazione di non poco conto (giusto qualche milione di curdi del Rojava da collocare), i due avevano tubato leziosamente le classiche frasi istituzionali, le rituali pratiche di buon vicinato: “Collaborazione, alleato strategico, impegno condiviso” … Parole, parole, parole.
Ma il momento della resa dei conti è arrivato, e anche una coppia tanto affiatata è stata messa in crisi dalla domanda più temuta all’interno di un rapporto: “Me o l’altra?”
Per cui, mentre Trump cerca di decidere di quale morte morire (se per mano del Daesh o delle maledizioni pseudoterroristiche di Erdoğan), Ankara si è assestata su una posizione dalla quale è inamovibile.
La Turchia non collabora con i terroristi.
(Trattenete le risate, ve ne prego, almeno fino alla fine.)
I curdi dello YPG (l’Unità di Protezione Popolare che domina le Forze Siriane Democratiche, l’alleanza sostenuta dagli Usa) sono visti dai turchi come una longa manus del PKK in Siria, e per questo una collaborazione non può essere considerata, nemmeno fosse l’unico modo per espugnare Raqqa.
Ankara vorrebbe spingere quindi gli Usa a spostare il proprio supporto da lì all’Esercito Libero Siriano, dai turchi addestrato e finanziato nell’ultimo anno.
Alle logiche obiezioni di Washington, ai legittimi dubbi sulla preparazione e la consistenza delle forze siriane ribelli, la Turchia risponde categorica: bastano e avanzano pure. Sono talmente tanti che prendiamo Raqqa, Al-Bab e rifondiamo anche l’impero ottomano.
E stavolta non si parla solo di Erdoğan, Yıldırım e dell’AKP, parliamo anche dei maggiori partiti dell’opposizione. Anche Mevlüt Dudu del CHP (il Partito Popolare Repubblicano, seconda forza del Paese e promotore di norma di un’apertura turco-curda) è contrario al progetto americano, e accusa gli Usa di voler appoggiare lo YPG – riconoscendogli importanti territori e smembrando così la Siria – per un proprio progetto imperialista, opposto al turco buon cuore, che altro interesse non ha che “la pace e la salvaguardia dell’integrità del territorio siriano”.
Ma appare chiaro che il timore comune a tutti sia il concreto rischio di emulazione in patria. E nessuno vuole che ai curdi vengano strane idee.
L’unica soluzione all’impasse sembrerebbe quindi un compromesso nel quale lo YPG partecipi alla presa di Raqqa e si ritiri in sordina, senza alcun riconoscimento, lasciando la città al controllo locale.
Ma mentre Townsend considera la situazione, la Turchia non può chiedere ai suoi uomini di morire al fianco degli assassini della propria gente, perciò non resta che ignorare i convenevoli e aspettare la reazione curda e il colpo di spada che spezzi il nodo.