True Detective : Once there was only Dark.
Cedere alla tentazione e mettersi a guardare un episodio dopo l’altro di True Detective, la nuova serie antologica creata da Nic Pizzolato prodotta dal HBO, trasposta sul piccolo schermo da Cary Joji Fukunaga, equivale a massimizzare un’esperienza televisiva che poche altre possono eguagliare. All’unanimità la vicenda che lega Rust Cohle e Marthy Hart si identifica come uno dei migliori thriller che la televisione abbia saputo sfornare negli ultimi anni, e di certo il migliore nel suo genere per quel che concerne l’annata del 2014.
Una delle caratteristiche base dei telefilm è la loro natura ad episodi, che porta il pubblico a stringere un legame solido con quel che guarda, basato molte volte sulla procrastinazione degli eventi, vedendosi costretto a rimanere in una momentanea apnea di suspance capace di scattare, in esso, ad ogni episodio, il quale ha, a sua volta, il compito di portare sia avanti la storia che regalare momenti memorabili nel giro di un’ora circa. E’ un compito difficile, va ammesso, relegare (parte di) una vicenda in meno di sessanta minuti, far assumere al tutto una consistenza ed una concretezza che porti, in ultima analisi, alla nascita di un prodotto uniforme e coerente nell’insieme. Per questo motivo, a discapito di un approccio che vede un gran numero di episodi messi assieme, True Detective, un po’ come ha fatto Fargo, serie prodotta dai fratelli Coen, si rivela essere, o tale può essere concepita, come una pellicola vera e propria, ma di considerevole lunghezza, che arriva a sfiorare le otto ore, ma che proprio attraverso questo aspetto, per il contenuto numero di puntate, al contrario delle serie sue colleghe, sa donare a noi tutti il massimo di se stessa.
Nic Pizzolato ha dato alla luce un prodotto interessante sotto molti punti di vista, è riuscito a mischiare molti degli elementi chiave per la riuscita di una nuova “fiction”, mettendo in prima linea non tanto la vicenda narrata, ma i personaggi che interagiscono in essa e tra loro; fortunatamente per lui, e per noi tutti, a dar vita poi alla figura di Rust e Marthy troviamo nel primo caso il Matthew McConaughey figlio della sua annata migliore (è comparso, se vi ricordate, in The Wolf of Wall Street di Scorsese ed ha vinto l’Oscar per Dallas Buyers Club, prendendosi poi il ruolo di protagonista in Interstellar di Nolan) che lo ha riportato alla ribalta in tutto il mondo, rivelando il suo straordinario talento; mentre il tenente Hart ha i lineamenti del sempre carismatico Woody Harrelson, amico di Matthew anche nella vita reale, tanto che i due non si consideravano molto sul set per paura che la loro storica amicizia non li facesse entrare bene ed approfonditamente nella parte, che a sua volta ha dimostrato non solo di essere in perfetta sintonia con il ruolo affidatogli, ma sopratutto di non sfigurare accanto al collega, mantenendo un equilibrio particolarmente efficace. I due, per la versione italiana, sono stati doppiati rispettivamente da Adriano Giannini e Pino Insegno, che hanno, in definitiva, fatto un lavoro davvero ottimo per le voci, anche se sentirlo in lingua originale (con i particolari accenti del luogo e quelli del Texas di Rust) è un altro paio di maniche.
Il tutto prende vita nella Luisiana, nelle paludi e in quelle lande degli Stati Uniti del Sud lasciate un po’ a se stesse, dove l’aria che si respira sembra sempre malsana e sporca, figlia delle industrie del luogo e degli acquitrini, una ambientazione ideale e azzeccata, ricca di fascino e mistero.
Prendete un classico noir, combinateci una struttura narrativa a spirare e inseritelo in un mondo tanto conosciuto quanto mai esplorato, privo di tutti quei cliché e quella superficialità nella quale a volte incappiamo, ed avrete True Detective, che nella sua impostazione ricorda quelle indagini di un tempo, alla L.A. Confidential o ancora più vecchi, quasi del cinema in bianco e nero, investita, tuttavia, di una sfumatura moderna e capace di staccarsi con prepotenza dalla concorrenza e dai suoi canoni ed archetipi. Niente grattacieli o inseguimenti nelle solite città affollate, solo alligatori, tramonti inquietanti, silenzi, forze primordiali e religioni dalle tinte woodo e sataniche. L’esoterismo la fa da padrone, non vi sono dubbi, ed è proprio questo a scaturirne il successo, perché quel tipo di elementi hanno sempre fatto colpo nell’animo umano, quasi fossero un’avvisaglia di ciò che siamo capaci di fare quando padroneggiamo le tenebre.
Carcosa, il luogo sacro dove si consumano dei rituali simili talvolta agli antichi Saturnalia, rappresenta non solo una meta fisica, ma anche uno stato d’animo, un cambiamento emotivo e psicologico, un posto mistico, nel quale i due protagonisti si imbattono e nel quale dovranno districarsi per arrivare al colpevole di efferati omicidi.
True Detective si mostra, quindi, una serie non tanto originale, ma curata fin nel minimo dettaglio, capace di ottimizzare ogni suo elemento, poiché se la sua messa in scena ricorda Le Paludi della Morte, pellicola realizzata dalla figlia di Michael Mann, resta impossibile, ad ogni modo, non elogiarne l’impatto visivo e la costruzione di un intreccio narrativo capace di esaltare non solo la storia principale, ma anche gli aspetti puramente tecnici del cinema o della televisione, quali ad esempio il montaggio.
L’intera indagine si sviluppa su più livelli, non segue una struttura lineare, e quando può riesce a giocare con i tempi ed il ritmo anche nelle situazioni più tranquille e meno concitate per mantenere alta l’attenzione di chi la guarda e non dare mai troppo per scontato. Coprendo un arco temporale di ben diciassette anni gli autori mostrano squarci del passato e del presente delle rispettive vite di Rust e Marthy, le indagini di allora e quelle di adesso, senza mai rivelare troppo, ma seminando elementi capaci di arricchire la voglia di conoscenza nello spettatore sorretti sempre da dialoghi di ottima fattura. Fukunaga si è rivelato essere sempre all’altezza del compito, una sfida che a suo dire ha visto impiegate molte delle sue forze a causa delle tante aspettative e delle pressioni fatte dalla produzione, ed il prodotto persino sotto il punto di vista della regia è un vero e proprio fiore all’occhiello. Guardando un episodio dopo l’altro si apprezza di gran lunga la padronanza del giovane regista americano, la sua ambizione e la incontenibile voglia di sperimentare un linguaggio visivo che vede di unire il vecchio con il nuovo. Carrelli, panoramiche dall’alto sull’ambiente lacustre, dolly, inquadrature sporche e piani sequenza da urlo capaci di arrivare a contare persino 6 minuti ininterrotti di girato, durante un irruzione con conseguente sparatoria in un quartiere popolare, conferiscono al telefilm quella vena d’autore da renderlo un vero e proprio cult.
E poi ci sono loro, i protagonisti, tanto diversi quanto affini, Rust, un uomo che ha perso la propria bambina in un incidente stradale, con un matrimonio alle spalle, profondo conoscitore della filosofia, un pessimista che abbraccia la natura umana e la vita, che critica coloro che si rifugiano in falsi idoli e credenze solo per cercare di raggiungere una illusoria felicità, colui che, però, un po’ per mettersi alla prova e per mettere fine agli atti osceni che vengono realizzati nello stato della Luisiana, non si pente minimamente di aver passato quasi vent’anni dietro ad un unico caso, divenuto quasi una ossessione, che cerca in tutti modi di arrivare a scoprire chi abbia ammazzato quelle donne e quei bambini, quelle coscienze strappate alla vita e affidate al mondo dei morti. Un abile detective, capace di saper estrapolare una confessione in meno di dieci minuti a cui manca, tuttavia, un forte senso dell’umano, mancanza che verrà colmata dal personaggio di Harrelson: il suo Marthy è un essere passionale, istintivo, con dei valori morali ed etici, ma incline al bere ed al tradimento, stupido ed al contempo intelligente, non sa mantenere le redini del proprio matrimonio, spingendo la moglie a lasciarlo più volte, distruggendo, proprio sotto i suoi occhi, quel che ha di più caro. Con quella forte spaccatura tra gli avvenimenti accaduti nel 1995 e quelli che prendono vita nel “presente”, lo spettatore vede l’intera natura dei due protagonisti, tutt’altro manichea e scontata, prolungarsi in un considerevole lasso di tempo, capace in questo modo di conferire ad entrambi una profondità psicologica interessante e ben calibrata, mai sopra le righe o fasulla.
Certo, su ben otto episodi, se dovessimo analizzarne uno ad uno, i primi quattro rappresentano il top, il non plus-ultra, la perfezione assoluta, perché in essi vi sono tutti i componenti sopra citati che conferiscono all’insieme quel qualcosa di eccelso, elementi che nella seconda parte vengono un po’ a mancare, non tanto perché le indagini appaiono meno accattivanti, ma piuttosto per tutta una serie di momenti meno riusciti che sfigurano con alcune scene intrise di una tensione davvero encomiabile. Il finale, per quanto ben orchestrato, a sua volta non riesce ad eguagliare l’inizio, ma sarebbe da incoscienti mettersi a criticare True Detective per delle lacune che in definitiva non penalizzano, in alcun modo, le bellezza del telefilm.
Nel dare un giudizio alla nuova serie ammiraglia della HBO c’è un po’ di soggezione, perché quel che abbiamo tra le mani è una serie antologica, quindi siamo certi che cambierà parecchie cose nella prossima stagione (che questa notte è stata trasmessa negli USA, ed in contemporanea anche in Italia su Sky) e per questo, sebbene si resti soddisfatti sotto ogni punto di vista, viene da pensare che tale magnificenza ed eccellenza non verrà, purtroppo ripetuta, nella prossima stagione, perché i personaggi di Rust e Marthy affascinano e stregano noi tutti come pochi altri, complici le straordinarie interpretazioni di McConaughey e Harrelson, perché la storia che vede invischiate religione, corruzione, sette sataniche ed esoterismo, contaminate dai paesaggi della Luisiana, hanno conferito al tutto quel qualcosa di appagante ed innovativo ed inedito, ma soprattutto perché Fukunaga, assieme a Pizzolato, ha fatto di True Detective un prodotto che verra indubbiamente preso in futuro come esempio, un manuale impeccabile di regia, sceneggiatura e direzione artistica di un qualcosa che colpisce ed ammalia, sebbene porti noi tutti a fare i conti con i lati peggiori dell’uomo, che conduca lo spettatore a Carcosa, il luogo sacro, dove avviene l’ascensione dei fedeli, la purificazione dai peccati della carne. In assoluto, con il suo finale enigmantico, la serie cala il sipario con uno dei dialoghi più belli e delicati degli ultimi anni, perché Rust forse ha ragione: un tempo vi era solo oscurità, mentre adesso la luce sta vincendo sulle tenebre.
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