True Detective (2×06)
Church in Ruins
Rischiando di andare leggermente fuori tema, qualche giorno fa era il compleanno di un certo signor Kubrick, un ragazzo che sarebbe divenuto, con il passare degli anni, un vero e proprio maestro della settima arte e avrebbe lasciato a tutti noi pellicole dall’immenso valore artistico, tra cui, postuma, quella che vedeva protagonisti Nicole Kidman e Tom Cruise in Eyes Wide Shut.
Di quel film, portato a compimento da Spielberg, tutti ricordano la bellissima ed inquietante carrellata che Stanley fa dell’orgia in quella ormai famosissima magione ove tutti i partecipanti e gli invitati portano le maschere al volto e che possono prendere parte al rituale solo se a conoscenza della parola d’ordine: Fidelio.
Ora, la HBO, che aveva già pompato la curiosità dei più, e del sottoscritto, grazie all’annuncio di quella scena di nudo con Cersei protagonista nell’episodio finale della quinta stagione, denominata “la camminata della vergogna”, si era lasciata scappare, nei mesi scorsi, una rivelazione alquanto inquietante sulla seconda stagione di True Detective, dove, a quanto pare, erano state chiamate porno attrici a prender parte ad una scena che avrebbe visto un gran numero di nudi e amplessi.
Premesso che siamo arrivati ormai all’episodio sesto, a soli due appuntamenti dalla parola “Fine”, rivelandosi essere dunque in dirittura d’arriv di una season deludente sotto molti punti di vista a partire da una sceneggiatura fatta da più compromessi che processi logici ed azioni esaltanti, quella che abbiamo di fronte è una puntata senza dubbio interessante, che si adagia su tutt’altri livelli rispetto alla deludentissima “Other Lives”, introspettiva, che da spazio ai personaggi, condita dalla solita apatia che ha condizionato l’intero secondo ciclo delle indagini, ma costruita unicamente per una conclusione che funziona bene solo nella sua messa in scena, sebbene cerchi di sorprendere e scandalizzare nelle sue intenzioni. Come per le settimane precedenti Pizzolatto arriva a noi sotto una veste di demiurgo ormai stanco e privato di quella originalità profonda ed incisiva, costantemente alla ricerca di dialoghi e situazioni ripetitive che dopo sei ore complessive possono stancare e annoiare, privando i suoi personaggi di quella luce e quell’oscurità che li ha resi affascinanti in passato.
Perché non ci troviamo davanti ad un mondo puramente manicheo, tutt’altro, ma dotato comunque di poche sfumature, o punti d’ombra che possano mettere in risalto il giusto contrasto, resta il fatto che ad eccezione di Ray e Antigone, tutti siano solo spettri che riflettono una crisi esistenziale ed un disagio sociale nato da difficoltà, sofferenza e torti di vario genere, raggirando i più noti luoghi comuni, a volte limitandosi, in definitiva, a riempire le scena con qualche battuta o azione.
Il centro di Church in Ruins sta proprio negli ultimi minuti, quando Rachel McAdams deve prendere il suo alter ego sul piccolo schermo e prepotentemente portarlo a prendere parte alla festa tenuta dall’alta società (corrotta) in una villa come tante, alla periferia di Vinci. La sequenza in questione strizza l’occhio al già citato film di Kubrick, ma non riesce a rimanere impressa poi più di tanto, né a godere di quella potenza scenica così devastante da sorprendere lo spettatore, sebbene si mostri curata sotto il profilo tecnico. Certo, siamo dinnanzi ad un lauto banchetto di sesso, seni, amplessi, coiti e masturbazioni, ma grazie ad un espediente pseudo onirico, dovuto alle droghe che Any è costretta ad ingerire, regista e sceneggiatore puntano tutto sulle “visioni” della giovane detective, le quali mostrano sprazzi interessanti del suo passato, su cui, si spera, si potrà scoprire qualcosa di più nei 120 minuti finali oltre che ad aggiungere, per dovere di cronaca, piccole rivelazioni sul caso.
Il resto dell’episodio è un cocktail di scene eccessivamente statiche, già viste e fossilizzate, che vogliono ribaltare una situazione la quale ormai dovrebbe condurre ad un finale (sulla cui orchestrazione sarà interessante speculare tra quattordici giorni, confuse e poco coinvolgenti, coadiuvate da dialoghi tra Velcoro e suo figlio, con sua moglie e il colpevole dello stupro di quest’ultima, finalmente arrestato. La puntata si apre con una discussione di assoluto livello tra Seymon e Ray, incentrato sul fatto che il gangster, tempo addietro, dette il nome sbagliato dello stupratore, portando così l’ex detective a commettere un crimine per cui può rischiare la galera e con il quale dovrà fare i conti per il resto della sua vita, ma siamo di fronte ad una mosca bianca, in un oceano di errori, momenti lenti, personaggi che spuntano fuori dal nulla e portano avanti il thriller per mettere così in pari il numero di ore assegnate dalla produzione. La verità è che ormai si inizia veramente a tirare le somme di questo secondo anno di True Detective, e gli elogi da fare sono puramente individuali, rari, ma soprattutto inferiori persino rispetto alle più basse aspettative. Possano gli ultimi due episodi salvare l’intera baracca? Forse no, e forse, in tal caso, sarebbe giusto così.
Voto: 5.5 (su 10)
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