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Terrore nello Spazio: A La Gran Guardia il FI-PI-LI inizia il festival nel nome di Mario Bava

Terrore nello Spazio: A La Gran Guardia il FI-PI-LI inizia il festival nel nome di Mario Bava

La Gran Guardia è un Cinema con la “c” maiuscola, a cui va portato un enorme rispetto, non fosse solo per essere risorto dalle ceneri del fallimento tornando a proiettare pellicole tenendo testa alla concorrenza spietata delle multisala. Siamo messi davanti ad una sala storica, un nome che fino ad un paio di generazioni passate era sulla bocca di tutti ed un luogo dove la settima arte ha trovato la sua massima rappresentazione. Un tempo a Livorno c’erano due Cinema degni di essere inseriti tra i migliori d’Italia, uno è il sopracitato, l’altro era l’Odeon. Colossale, imponente, abbracciava lo spettatore con uno sfondo ed un soffitto intriso di luci simile ad un cielo stellato. Elegante, dalla capienza smisurata, esso si mostrava nella sua più eterea architettonica bellezza agli occhi di chi non vedeva l’ora di assistere alla pellicola che di lì a poco sarebbe stata trasmessa sullo schermo. Oggi l’Odeon, dispiace ammetterlo, è un parcheggio, e da fuori è possibile osservarne i resti ricoperti da un considerevole strato di sporco e polvere. Ma la decadenza di Livorno è un’altra storia, perciò continuiamo a parlare di Cinema

La nuova sala de La Gran Guardia.

La Gran Guardia resiste, ad oggi, e lo fa con fierezza, per tale motivo mettere piede in quella che anni addietro era la galleria superiore, oggi trasformata in due piccole sale dalla capienza ridotta, riesce ad innescare  tutta una serie di forti emozioni in coloro che, da piccoli magari, hanno passato pomeriggi interi o week-end con i propri genitori a vedere film con i quali sarebbero cresciuti. Prima e dopo si fondono, tra i suoi corridoi, un aspetto moderno si mescola a cornici dal sapore antico che racchiudono locandine d’epoca che spaziano da classici del genere thriller a capolavori intramontabili come Nick Mano Fredda. E’ pura gioia rivedere la vecchia biglietteria, toccare con mano, ancora, frammenti di quelli che furono un tempo elementi di contorno di uno dei Cinema migliori che si potessero avere in città. Per tale motivo, al di là della serata e di quello che è stata capace di trasmettere e dire, il Fi-Pi-Li Horror Festival, per chi scrive, ha già ingranato la marcia giusta e merita le lodi più sincere.

La kermesse dell’orrore labronica inizia nel nome di un uomo di cui il cinema italiano non può fare a meno, la cui influenza e estro è stata tale da arrivare oltre oceano e condizionare autori noti come Tim Burton o Ridley Scott. Parliamo di Mario Bava, il regista romano autore di Terrore nello Spazio, La Maschera del Demonio ed altri intramontabili capolavori. A fare da introduzione alla proiezione di Terrore nello Spazio c’è il figlio, Lamberto, anche lui regista, i più forse lo ricorderanno per il lungometraggio Demoni 2, ma è stato anche assistente del padre e supervisore della versione restaurata in 4k presentata nella serata di ieri.

Prima dei titoli di testa c’è un po’ di sana conversazione, un’introduzione da parte di Lamberto e Federico Frusciante, condotta da Alessio Porquier, grazie alla quale capiamo non solo chi fosse Mario Bava come regista, sul set e con la macchina da presa, ma anche nella vita. Si susseguono tutta una serie di aneddoti che fanno gola a chi il Cinema lo mastica da anni.

“Più che un padre un amico. Un uomo eccezionale, ricco di ironia e avanti coi tempi. Mi dava da leggere sia libri che fumetti, laddove gli altri genitori guardavano con poca convinzione coloro che si addentravano nel mondo dei comics all’epoca”.

Alessio Porquier (in foto), assieme a Ciro Di Dato, sono gli organizzatori del Fi-Pi-Li Horror Festival. Foto di Giulia Barini.

“Bava? Un maestro, un artigiano dotato di quella scintilla capace di trasformarlo in un artista a tutto tondo. Pochi registi al mondo, cito Truffaut o Welles, sono stati capaci di affermarsi con un esordio straordinario e Bava è uno di questi. Ad eccezione di un paio di modesti western, i lavori di quest’uomo sono tutti da vedere, rivedere, studiare con minuzia e analizzare nel dettaglio.”

Nicolas Winding Refn, autore di pellicole acclamate dalla critica internazionale tra cui Bronson con Tom Hardy e Drive, prima collaborazione con l’attore Ryan Gosling. A Cannes 2016 parteciperà con The Neon Demon, il suo nuovo ed inedito film horror.

In tal modo viene ricordato il regista dai due ospiti presenti, e con tanti altri elogi sono menzionate le sue opere, dotate di una trama semplice, ma forti di una regia carica di personalità, ove a fuori emergere vi è la voglia di voler narrare e di fare cinema. La versione restaurata è figlia della volontà di molte persone, una che di certo non passa inosservata è Nicolas Winding Refn, l’autore di lungometraggi di culto come Drive, Bronson e Solo Dio Perdona. La sua collaborazione con la cineteca di Bologna assomiglia tanto ad un gesto di ringraziamento, un favore che il film-maker danese ha compiuto per rendere omaggio a colui a cui in parte si è sempre ispirato, perché se il cinema di Refn è ricco di quelle luci e quei colori di cui è capace di farci innamorare è complice Mario Bava. C’è sempre lui tra i piedi, Dio lo benedica!, altrimenti non avremmo The Neon Demon a Cannes 2016 o i gotici di Burton.

L’introduzione alla pellicola termina con l’intervento di Sergio Martino, che con affetto ricorda un paio di aneddoti interessanti sul Bava autore, e sulle sue peripezie nei set durante la realizzazione delle pellicole. Di lui viene detto che era un uomo che controllava sempre i costi di produzione e manteneva una grande professionalità sul campo, ma anche una persona ricca di talento, che non sapeva mai arrendersi a una sfida e che ad ogni difficoltà cercava sempre di trovare la soluzione più efficace.

Alle ore 21:10 le luci si spengono, quel che vediamo sono i titoli di testa della versione restaurata di Terrore nello Spazio.

Realizzata con un budget limitato, il lavoro di Mario Bava oggi si mostra palesemente figlio di quegli anni ’60 dei quali viene considerato uno dei maggiori esponenti della miglior fantascienza italiana. In fondo, parliamoci chiaro, Alien di Ridley Scott deve molto a questa produzione, e se le somiglianze sono evidenti, ma non tanto estreme da suggerire la parola “plagio”, i due lungometraggi possono tranquillamente essere considerati come stretti cugini.

Due navi spaziali captano un segnale sconosciuto da un pianeta ignoto, una volta che l’equipaggio scende a dare un’occhiata una forza invisibile sembra impossessarsi di ognuno di loro. Con il passare del tempo misteriose sparizioni e morti causeranno scompiglio e terrore nei cuori dei protagonisti. La tensione si farà sempre più concreta e letale minuto dopo minuto, fino al colpo di scena finale, dove l’incredibile lascia spazio all’inverosimile, e ad un cambio di prospettiva tanto efficace quanto ancora d’effetto conduce lo spettatore all’inattesa conclusione.

Mario Bava era un uomo che amava sperimentare ed anche in questo caso è evidente la sua voglia di volersi sempre più spingere oltre, non considerando i limiti ed il misero budget a disposizione. Terrore nello Spazio è un caleidoscopio di effetti speciali e trovate visive che fanno emergere chiaramente le capacità creative ed artistiche dell’autore, e laddove oggi queste appaiono “datate” da un lato, dall’altro si fanno portavoce di una modernità strabiliante, a riprova che, nel design e nella costruzione dei set, Bava era davvero un uomo dotato di una grande immaginazione e fosse un vero e proprio precursore della settima arte nel suo campo.

Una scena tratta da “Terrore nello Spazio” ove si fanno palesi i richiami ad Alien, nella sceneggiatura, ed agli scheletri di Tim Burton nella resa estetica.
“[Mario] Più che un padre era un amico. Un uomo eccezionale, ricco di ironia e avanti coi tempi. Mi dava da leggere sia libri che fumetti, laddove gli altri genitori guardavano con poca convinzione coloro che si addentravano nel mondo dei comics all’epoca”.

A onor del vero, va riconosciuto che alcuni dialoghi non risultino particolarmente brillanti, i quali, però, vengono soccorsi da una regia curata fin nel minimo dettaglio, a tratti persino Spielberghiana, con quei movimenti di macchina che accennano a quel virtuosismo che fa interagire i personaggi con l’ambiente che li circonda. La grande differenza, tuttavia, sta proprio nella lettura che i due autori danno del rapporto tra uomo e entità aliena. Laddove il pluripremiato regista americano ha sempre, o quasi, conferito agli Extra Terresti una sfumatura buonista e pacifica, ricordiamoci di E.T. o quel capolavoro di Incontri Ravvicinati col Terzo Tipo, quello a cui siamo stati messi di fronte ieri sera a La Gran Guardia è stato una rappresentazione che si è avvalsa di una chiave di lettura cinica e estremamente violenta nei riguardi dell’interazione tra l’uomo ed altre specie di natura aliena. Una tematica, questa, che verrà ripresa in Alien di Scott.

Terrore nello Spazio è un’opera che resta figlia del suo tempo, ma questa sfumatura, riscontrabile nelle scenografie e nei costumi, non ne limita la godibilità, tutt’altro. Se concepita, appunto, come pellicola realizzata nel pieno degli anni ’60, l’opera di Mario Bava resta un attestato di grande creatività e capacità, ove ad essere messi in evidenza, grazie al restauro straordinario in 4K, sono tutti gli elementi presenti sullo schermo a partire dagli oggetti più insignificanti fino agli effetti sonori. Non la sua migliore opera, non una seconda La Maschera del Demonio, ma un progetto ricco di personalità e testimonianza del miglior cinema di genere fantascientifico italiano, realizzato negli studi di Cinecittà. Un piccolo gioiello destinato a fare comunque la storia del Cinema grazie al quale oggi possiamo dire di avere un altro grande lungometraggio, Alien.

Concludiamo nel riportare quanto suggerito dal figlio di Bava, Lamberto: “Chissà come mio padre, un maestro negli effetti speciali, nella loro realizzazione e direzione, oggi si approccerebbe al Cinema. Quale effetto gli farebbe vedere suoi film come li vediamo noi ora. Forse, però, è bene che lui li abbiamo visti e realizzati con le tecniche dell’epoca” perché in esse sta la grande forza visiva di quest’ultimi.

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