LIVORNO – Uni Info News intervista Ilaria di Luca e Andrea Gambuzza, direttori del Teatro della Brigata, piccola realtà molto attiva e interessante che si sta ritagliando il suo spazio nel quartiere Fabbricotti, in via Brigata Garibaldi, in cui è andato in scena da poco l’esibizione dei ragazzi del primo e secondo anno della suddetta scuola, con due rivisitazioni notevoli dal punto di vista coreografico e artistico, oltre che di straordinario impatto visivo. I primi hanno portato in scena la Medea di Euripide, mentre i secondi il terzo canto dell’inferno dantesco. Di questa duplice esibizione parleremo in un apposito articolo. Ora concentriamoci su questi due attori teatrali e maestri che hanno voluto compiere un atto di particolare coraggio e follia.
Chi sono Ilaria di Luca e Andrea Gambuzza?
Ciao, prima di tutto, come tu hai già detto, siamo una coppia di attori, siamo nati e cresciuti a Livorno e sì, siamo una coppia anche nella vita… Abbiamo provenienze artistiche differenti, seppur profondamente complementari. Ilaria ha studiato alla scuola del Teatro Stabile di Torino, allora diretta dal Maestro Luca Ronconi, assoluto rinnovatore del teatro di parola, riconosciuto come uno dei massimi esponenti del teatro italiano di regia e Andrea (che vi sta parlando in questo momento), si è formato prima come attore di Commedia dell’Arte, studiando e lavorando con l’esperto di fama internazionale Antonio Fava e poi andando a proseguire i suoi studi sul teatro di movimento e sul rapporto corpo/maschera, all’Ecole Internationale de Thatre Jacques Lecoq di Parigi. Insieme, nel 2005, abbiamo deciso di partire alla volta di Roma, dova abbiamo vissuto 8 anni, durante i quali abbiamo avuto l’opportunità di fare molteplici esperienze, dalle più desolanti alle più esaltanti, finendo per recitare sui più importanti palchi capitolini e nazionali, in situazioni apparentemente distanti, ma comunque sempre legate dal filo rosso della necessità di trovare e difendere una nostra urgenza di fare teatro: da una parte, le grandi compagnie dei teatri stabili, con i loro meccanismi un po’ alienanti da baracconi talvolta svuotati di senso, ma pur sempre occasione per apprendere i fondamentali del mestiere da mostri sacri che calcano i palcoscenici da trent’anni e dall’altra, le compagnie private di commedia “alla romana”, che pure hanno rappresentato una scuola di vita e di arte non indifferente, permettendoci di riflettere e conoscere dall’interno i meccanismi sui quali si genera il gradimento di una drammaturgia originale e il percorso di un gruppo di lavoro di discreto successo, ma che, in fondo in fondo, non ci appartenevano veramente.
Come nasce l’idea di creare un teatro? Qual è la storia che ci è dietro?
Come detto, nonostante le soddisfazioni professionali non fossero mancate, l’esperienza nella capitale si stava poco a poco esaurendo, così, dopo esserci trasferiti a Livorno e aver cercato di conoscere più da vicino come si muoveva la realtà del nostro territorio, che non avevamo mai veramente abbandonato, non fosse altro per il fatto che tutti gli spettacoli della nostra compagnia, Orto degli Ananassi, sono stati allestiti qui e con il contributo delle principali strutture teatrali locali (Fondazione Teatro Goldoni, Centro Artistico il Grattacielo e Armunia). Dopo un periodo di esplorazione, complice anche l’opportunità che ci è stata concessa, di aver collaborare anche come insegnanti all’interno di queste e altre realtà livornesi, ci siamo resi conto che, da un lato, era sempre più forte in noi l’esigenza di essere responsabili a tutto tondo del servizio che offrivamo alle persone che avessero voglia di venire ad imparare qualcosa da noi, in modo da poter testimoniare e coltivare quel tipo di approccio al “fare teatro” che per noi è imprescindibile, e dall’altro, che avevamo maturato abbastanza esperienza e strumenti per provarci davvero.
Perché proprio a Livorno?
Livorno è la nostra città, se dobbiamo stringere i denti per far quadrare i conti e sorbirci una serie di grattacapi burocratici talvolta estenuanti, possiamo trovare le forza di farlo solo sapendo che stiamo seminando e cercando di far crescere (speriamo) qualcosa di buono per la nostra gente e le nuove generazioni che andranno piano piano a comporre la nostra comunità. Fare del buon teatro è, soprattutto, un atto politico, senza con questo voler dare alcuna accezione partitica di sorta alla cosa. Si fa teatro per raccontare storie e per permettere a chi lo viene a vedere di avere gli strumenti per capire un po’ meglio il suo tempo e se stesso, e se tutto va come dovrebbe, uscire dalla sala un po’ “migliore” rispetto a quando è entrato. Gli antichi greci ce lo hanno insegnato e noi cerchiamo, nel nostro piccolo, di reiterare questa pratica.
Cos’è per voi il teatro? C’è teatro al di là del palcoscenico?
Il teatro è un luogo dove imparare a conoscersi, dove è indispensabile cominciare a munirsi di una buona grammatica, e dove è fondamentale imparare a relazionarsi al prossimo e a mettere in condivisione il proprio universo emotivo. I sentimenti non si mimano, c’è innanzitutto da cominciare a concedersi il permesso di vivere le nostre emozioni e lasciarle libere di esprimersi, trovata questa via d’accesso, poi, si comincerà ad avere una nostra tavolozza di colori che diventerà, di pari passo alla nostra evoluzione di individui, sempre più complessa e variegata, soltanto dopo questo, imparando a leggere i testi e a conoscere le regole della composizione scenica, si potrà sperare di arrivare a fare del buon teatro: un teatro vivo e necessario.
Ciò che più rifuggiamo è il teatro auto-celebrativo, quello in cui gli attori vanno in scena solo per farsi vedere e per farci sapere (alle volte travisando un po’ la realtà) quanto sono bravi… Il teatro del narcisismo e dell’egocentrismo e il morbo contro il quale cerchiamo di combattere quotidianamente.
Il teatro al di là del palcoscenico è quel teatro che continua a parlarti anche dopo giorni (quando non anni) che hai visto un dato spettacolo. Il teatro è un modo di leggere il mondo, di imparare a conoscere e a riconoscere i veri significati delle parole delle persone che ci circondano, di capire (un po’ come diceva Pirandello) che copione stanno recitando e quale maschera stanno indossando. In questo senso, il teatro ti da un po’ dei super poteri, che ti aiutano anche, qualche volta a sbrogliare qualche impiccio della vita. Ma non ci dimentichiamo (scomodando questa volta lo zio dell’Uomo Ragno) che da grandi poteri, derivano grandi responsabilità…
Ci piace raccontare storie, che siano fruibili a più livelli. A proposito di “responsabilità”, crediamo che innanzitutto il nostro compito principale sia quello di tenere sveglia la gente. Intrattenere non significa solo fare banalmente cose che fanno ridere, ma che tengano attivi gli spettatori: creare sorprese, non indugiare su informazioni già date, rendere il più possibile comprensibile ciò che sta avvenendo e soprattutto, far accadere le cose e non citarle. Fino ad ora, gli spettacoli che abbiamo portato in scena come compagnia, sono stati drammaturgie originali sviluppate a seguito di percorsi di inchiesta, ovvero documentazione sul campo e interviste ai protagonisti diretti di vicende inerenti all’argomento che si intende portare in scena. E’ molto più utile e onesto portare in scena parole e immagini derivanti da un’immersione diretta nei meandri e nella carne della materia trattata, piuttosto che sciorinare sofismi e funambolici ragionamenti. Facciamo teatro, non facciamo letteratura. Nei libri si esprimono concetti, in teatro, come già detto, le cose accadono: a noi che siamo in scena, ai personaggi che interpretiamo e al pubblico che sta facendo con noi il viaggio che gli proponiamo.
Essere se stessi e mettere la propria umanità a servizio della storia che stiamo raccontando. Liberarsi dagli orpelli, dei preconcetti e andare dritto al nocciolo della questione. Dare concretezza alle parole e farle suonare nuove e appena “pensate”, anche se scritte e scelte migliaia di anni fa. Capire che abbiamo un corpo e imparare a usarlo come strumento poetico e imparare a conoscere lo spazio e abitarlo con la consapevolezza che è un altro personaggio e che deve anche lui dire le sue “battute”, che devono essere ben comprensibili.
Come mai la scelta è ricaduta proprio sulla Medea di Euripide e sul III canto dell’Inferno di Dante?
La prima metà del primo dei tre anni della scuola che abbiamo pensato, affronta come strumento pedagogico la “Tragedia Antica”. Questo per due motivi fondamentali: innanzitutto, la Tragedia Greca è il teatro dei grandi sentimenti e questo da agli allievi l’opportunità di confrontarsi col problema di recitare parole che hanno migliaia di anni, ma che a guardarle con i giusti occhi (e soprattutto tramite le giuste traduzioni) sono ancora capaci di esprimere in modo sublime emozioni, stati d’animo e relazioni, di portata universale e poi perché, il lavoro sul coro ci permette di stabilire un caposaldo imprescindibile, ovvero, che il teatro si fa insieme.
I ragazzi del secondo anno, invece, dopo un primo periodo di esplorazione sulle possibilità espressive di un corpo in movimento e un lavoro di studio sull’interpretazione dei testi poetici, fondamentale per amplificare il portato immaginifico dell’enunciazione di un testo, hanno messo in scena il terzo dell’Inferno perché, di nuovo, crediamo sia una palestra fondamentale per un attore, quella di imparare a dare concretezza a un linguaggio apparentemente così distante da noi, così come fondamentalmente è l’italiano di Dante, ma così pieno di immagini, avvenimenti e cambi di spazio, che teatralmente rappresentano un’opportunità golosa per giocare a creare mondi utilizzando solo il nostro corpo e la nostra voce.
Innanzitutto vorremmo dare la giusta visibilità al nostro ultimo lavoro, sul tema dei padri separati, dal titolo “La Parte Migliore di Me”, che ci piacerebbe poter far girare in Toscana e non solo e poi, una volta stabilizzato il lavoro con la scuola, immaginare anche di allargare l’organico, magari anche investendo in qualche produzione di teatro ragazzi, che fino ad ora abbiamo avuto modo di frequentare solo sporadicamente.
Invece cosa dobbiamo aspettarci dal Teatro della Brigata?
Siamo giovani (come spazio, non anagraficamente, ahimè…) e abbiamo tanti sogni. Comunque, ciò che ci preme in questo momento è dare la giusta solidità e credibilità al progetto formativo che abbiamo sviluppato e che coinvolge, distribuiti su diverse fasce di età, allievi che vanno dai 7 ai 60 anni… Poi, avendo anche allestito la nostra sala come luogo di spettacolo, anche e soprattutto grazie all’aiuto e la collaborazione di un sacco di amici e colleghi, professionisti teatrali in diversi ambiti, che, ognuno in base ai propri talenti e competenze, hanno contributo a dare forma al progetto ambizioso che stavamo covando, vorremmo iniziare a replicare intanto gli spettacoli della nostra compagnia e poi, se si riesce, iniziare ad ospitare i lavori (spettacoli e laboratori) anche di compagnie e colleghi provenienti da diverse parti d’Italia, che durante gli anni abbiamo avuto il piacere di conoscere a con i quali abbiamo avuto la fortuna di collaborare, e che possano aiutarci a consolidare l’identità dello spazio che abbiamo creato, come luogo di condivisione e, come abbiamo scritto nella presentazione sul nostro sito, dove si impara a conoscere e riconoscere la bellezza. Stiamo cercando di portare avanti una rivoluzione, fatta di contenuti e di scambi e dobbiamo dire, fortunatamente, ci sentiamo ogni giorno sempre meno soli.