“Il senso di colpa, è come un sacco pieno di mattoni. Non devi fare altro che scaricarlo.”
Così parlava John Milton, nell’immaginario collettivo l’archetipo essenziale dell’avvocato amorale e senza scrupoli, simbolo dell’intera categoria, uomini per il quale l’etica del proprio lavoro non conosce limiti di morale.
Banalizziamo pure: tutti ricorderemo il girotondo di felicità immaginato da Lionel Hutz nei Simpson utopizzando un mondo senza avvocati. Ma in termini di necessità, come potremmo accostarci alla questione?
Con il caso di Salah Abdeslam, il mondo pare essersi accorto solo ora che il cattivo, anche il più cattivo, ha diritto a una difesa.
È un diritto primario, un diritto civile inviolabile della persona. E Abdeslam non sarà il primo, né l’ultimo cattivo sulla faccia della terra.
E allora perché tanto scandalo?
Cosa lo differenzia dai nazisti?
Cosa lo differenzia da Saddam?
Da Milošević, da Karadžić, da qualsiasi altro assassino, per esempio?
Solo il fatto che l’IS è un pericolo vivente, dinamico, fluido. Che per una volta non è tagliando il capo che il corpo si ferma, perché come l’Idra, tagliando un capo ne ricrescono di nuovi, e ogni capo va amputato, ad uno ad uno, pur sapendo che non sarà il primo, né l’ultimo, e che probabilmente ben poco cambierà per noi.
Trascendendo il contingente quindi, questa non sarà stata certo la prima volta che un cattivo ha avuto una difesa. E di solito queste grandi menti criminali si servono di uomini in vista, che hanno fatto della difesa del diavolo il loro marchio di fabbrica e scala per il successo.
E allora “Qui est Sven Mary?” Sven Mary – “l’avocat des crapules”, delle canaglie – ha nel suo curriculum una lunga serie di clienti celebri: Fouad Belkacem (di Sharia4Belgio), Murat Kaplan (il “re dell’evasione”), Nordine Amrani (l’autore della strage di Liegi del 2011), e molti altri.
Come lui, solo uno tra tanti, l’italianissimo Di Stefano (che poi, si scoprì, vero avvocato non lo era nemmeno): molti lo ricorderanno a Mai Dire Gol come l’originale Presidente del Campobasso, ma ha avuto anche l’”onore” di difendere personcine come Saddam Hussein, Tāreq ʿAzīz e Slobodan Milošević. Per intenderci.
Amava ripetere: “Anche Hitler e Satana hanno bisogno di un avvocato, e io sarei pronto a difenderli.”
Ma non guardiamo troppo in grande, ai casi eclatanti. Semplicemente, cosa spinge un essere umano a chiudere gli occhi di fronte all’evidenza sfacciata di un crimine?
Qualunque crimine, d’accordo, ma tentiamo di circoscrivere il discorso, o non se ne esce più.
Cosa spinge, dunque, un uomo a chiudere gli occhi di fronte a un abominio. O anzi, peggio, a guardarlo, analizzarlo, conoscerne e comprenderne ogni aspetto, a porsi volontariamente di fronte all’evidenza, e decidere – altrettanto volontariamente – di compiere un abominio ancor più grande, che può prendere la forma della negazione o della giustificazione.
La prima domanda da porci dunque è questa: è un abominio la difesa del colpevole che pare esser tale senza ombra di dubbio, né dignità di giustificazione?
Come si pone un avvocato di fronte ad un tale dubbio di coscienza? Ci sono uomini in cui il dubbio ormai nemmeno si pone più?
E Sven Mary ad una prima occhiata ci sembra proprio Al Pacino, ma con l’aria da “Pardon madame, ho dimenticato gli stivali sotto al suo letto”. Niente effetto sorpresa, ma spocchia, ricerca spasmodica del clamore mediatico.
Come Di Stefano che pagò il monumentale matrimonio tra il cliente Arkan la tigre dei Balcani e la moglie cantante pop.
Purtroppo approcciarsi al problema in termini di opportunità non è possibile: non è possibile guardare al caso concreto senza guardare alla teoria, non è possibile – moralmente – giustificare un’ingiustizia minore rispetto ad una superiore.
Credo che ogni avvocato si ponga prima o poi il dilemma del conflitto tra etica e morale. Non voglio pensare agli avvocati come ai robot senza scrupoli che appaiono nell’immaginario collettivo.
“Avvocato: coscienza a nolo” scriveva Dostoevskij.
Un uomo all’Azzeccagarbugli a cui “bisogna raccontar le cose chiare”, perché a lui “tocca poi imbrogliarle”.
Ma allora come si pone un uomo “morale” di fronte alla richiesta di adempimento di un dovere etico che – almeno superficialmente – contrasta con la morale?
Ovvero, un avvocato per cui uccidere è moralmente sbagliato, chiamato a difendere un assassino, sta compiendo un atto professionalmente etico ma personalmente antimorale*?
*Dove per “morale” si fa riferimento alla morale ordinaria, comune, s’intende.
Per darci una risposta, dobbiamo chiederci cosa voglia dire per l’avvocato esercitare la propria professione in maniera morale, ossia se possa egli presuntuosamente arrogarsi la facoltà di dare al suo cliente un giudizio di valore, un giudizio di colpevolezza a priori, anticipando in tal modo l’esito del processo, e quindi l’attività del giudice.
Lungi da me voler sintetizzare secoli di dibattito dottrinale con una rivelazione mistica sul giusto e l’erroneo, ma cercherò di operare un’argomentazione ragionata.
L’avvocato non ha compiti di giudizio di sorta. Egli ha il solo compito di contribuire a formare la “verità convenzionale” derivante dal processo, che mai equivarrà ad una giustizia assoluta.
Ogni uomo, secondo la nostra Costituzione, ha diritto alla difesa, ed è innocente sino alla condanna definitiva, quindi – almeno in teoria – no, l’avvocato non può anteporre il proprio giudizio morale alla Costituzione.
Non può egli, nemmeno davanti alle prove più schiaccianti del crimine più abietto, agire secondo coscienza.
È evidente allora quanto sia necessario distinguere la morale personale da quella professionale: perlomeno in teoria l’avvocato scelto “di fiducia” dall’imputato non deve rifiutare l’incarico, e deve in ogni caso condurre la difesa nel modo più efficace. Potrebbe egli astenersene solamente qualora non possa garantire l’efficace perseguimento degli interessi della parte.
Perciò non c’è morale che tenga: l’unica etica rilevante è quella professionale, e fare l’interesse della parte – con tutti i mezzi possibili – è l’unico fine, per il quale si scavalcano anche gli imperativi di coscienza.
L’avvocato deve quindi essere parte neutrale del processo.
Non dovrebbe cioè guardare al fine teorico del processo stesso, ossia la giustizia della sensibilità comune, ma fare tutto ciò che la legge gli consente per far compiere una giustizia superiore, quella dei princìpi primi dello Stato civile: e cioè far valere le ragioni del cliente, anche se esse assai distano dal comune concetto di “morale”.
Dunque: “s’ei lice, ei debe?”, anche se perseguire l’etica deontologica porta ad andar contro alle convinzioni coscienti?
Esiste un limite a ciò che “è bene”, a ciò che è lecito, nel rapporto tra diritto e giustizia?
Il De Liguori, giurista prima, santo poi, nella prima delle XII regole morali dell’avvocato prescriveva appunto di non accettare cause “ingiuste”, “perché perniciose per la coscìenza e pel decoro”.
Ma ora che il diritto alla difesa è – perlomeno negli ordinamenti civili, di cui parliamo – universalmente riconosciuto, com’è possibile negare a chiunque il diritto a far valere le proprie ragioni?
Se non fosse garantito il diritto alla difesa non ci sarebbe processo, e si prospetterebbero allora due scenari altrettanto apocalittici:
- la non perseguibilità del colpevole
- l’incarcerazione incondizionata, con il conseguente fallimento dello stato democratico – sociale.
Ne risulta che oltre che un diritto, la difesa è un obbligo: è un obbligo avere un difensore (anche se stessi, secondo la CEDU), è un dovere fornirla (come ci dimostra il sistema dell’avvocatura d’ufficio e la non rinunciabilità della carica in questione, se non per motivi eccezionali).
- Esempio emblematico è quello del processo alle Brigate Rosse nel 1976: i brigatisti, dichiarandosi responsabili, ma non colpevoli, non riconoscendo la legittimità né l’esistenza di presupposti per il processo cui erano sottoposti, dichiararono di non aver bisogno di difesa, e di non voler avvocato alcuno, proclamando altresì il rifiuto del difensore d’ufficio, e minacciando l’equiparazione di chiunque avesse accettato la difesa a collaborazionismo con il “regime” di Stato.
Avvocato d’ufficio venne scelto Fulvio Croce, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, che accettò suo malgrado per permettere al processo di procedere, e venne ucciso.
Ma se quindi – ricapitolando – è obbligatorio avere un avvocato, e per l’avvocato è obbligatorio agire eticamente in maniera da realizzare l’interesse della parte, come biasimare chi concretamente si trovi nella posizione di farlo?
Nessuna contraddizione in termini sembra dunque rinvenirsi nel codice deontologico forense: l’obbligo per l’avvocato (ex art. 9) di comportarsi secondo correttezza, dignità e probità, non andrebbe a cozzare, anzi sarebbe incluso, nel riferimento agli obblighi di
- tutela dell’inviolabilità e dell’effettività della difesa (art. 1)
- e di difensa dell’interesse della parte (art. 10).
E l’agire secondo etica, e non secondo coscienza, accettando liberamente la difesa di soggetti che per il sentimento comune sono considerati mostri, non si porrebbe in contrasto con la morale, se guardiamo all’avvocato come a colui che è tenuto a difendere il reo, e non il reato. Meglio, il presunto reo.
Egli non sta, con la sua condotta, giustificando la commissione del crimine, bensì sta difendendo – secondo Costituzione – il diritto inviolabile della persona alla difesa.
Perciò sarebbe ingiusto sicuramente dal punto di vista etico un rifiuto di coscienza.
E non contrasterebbe anche con la comune morale il rifiuto della tutela ad un diritto fondamentale?
E proprio secondo questo, Mary afferma di agire.
Non gli importa di essere un personaggio contestato, egli agisce secondo il rispetto della presunzione di innocenza, al servizio della “giustizia”, dunque, dell’“État de droit”.
Controversia della figura e clamore mediatico a parte, quindi, è davvero possibile per noi operare un giudizio di valore nei suoi confronti?
Decidere in primo luogo della giustizia delle sue azioni, ed in secondo della giustizia delle sue motivazioni?
A quanto pare ci sentiamo legittimati, al di là del bene e del male, a decidere aprioristicamente chi siano gli “indifendibili” e quali siano le “cause ingiuste”.
E a giudicare chi invece, pur nel rispetto della legge, ha il coraggio di scendere a patti con la propria coscienza.
“Quando ero giovane, sul bus che ci portava a scuola, c’era un ragazzo che si faceva sempre rubare la cioccolata dal cestino del pranzo da tre ragazzi.
Un giorno ho detto loro: “Adesso basta”. Ci fu una gran confusione.
Mi costò due settimane di punizione, ma ciò che ho fatto era giusto.” (Sven Mary)