Suspiria
1977. Susie Bannion arriva a Berlino dall’America per frequentare la scuola di danza di Helena Markos. Dietro ai tumulti politici ed alla tensione crescente dovuta al clima che si respira nella città tedesca, tra le mura della Markos Tanz avvengono sinistri episodi legati a sparizioni improvvise di alcune componenti del corpo di ballo e, mentre un anziano psicanalista indaga sull’improvvisa scomparsa di una di queste, sua paziente, Susie è sempre più coinvolta nelle lezioni tenute da Madame Blanc, famosa insegnante di ballo per la quale ha deciso di attraversare l’oceano e fare l’audizione per essere ammessa alla prestigiosa scuola. Tutto sembra andare per il meglio, ma la congrega ha in serbo per Susie progetti ben diversi dalle sue artistiche aspirazioni.
Il Suspiria di Luca Guadagnino non poteva essere più diverso dall’originale di Dario Argento, tanto da prenderne le distanze pressoché in ogni ambito se non quello prettamente legato al contesto artistico, il cui oggetto rimane la danza, sebbene qui sia diversa dal balletto classico, ed i nomi dei personaggi.
Proprio in virtù di questo, pensare di approcciarsi al Suspiria del 2018 con in mente l’originale del ‘77 è un errore capace di impedirne la giusta interpretazione.
Argento aveva adattato in celluloide il romanzo “Suspiria De Profundis” di Thomas de Quincey, trasformandolo in una favola dark con tanto di rivelazione esoterica conclusiva. Aveva incentrato i suoi sforzi sulle geometrie scenografiche, sulla musica dei Goblin e sulla fotografia di Luciano Tovoli: quei colori accesi oltre l’inverosimile con la predilezione di un trittico cromatico preciso (giallo, rosso e blu) il cui fine era quello di tracciare un parallelismo non solo estetico, ma che facesse da supporto al processo legato alla rivelazione finale.
Guadagnino stravolge il contenuto di partenza, o meglio, intelligentemente stronca quella tensione che sarebbe stata inutile costruire, data l’eredità cinematografica che si porta sulle spalle l’opera Argentiana.
Il suo lavoro di una vita cresce lentamente, quasi in modo impercettibile, ma costante.
Niente shock esplicito o epifania da thriller ad alta tensione, niente giochi di luce o caccia al colpevole: si parli di streghe, ci sia qualcosa di straordinario sotto l’ordinarietà della scuola di danza, che la follia alberghi in una Berlino sconquassata dai terroristi, dalla R.A.F., dal dopo guerra e dalla solitudine dei suoi abitanti, si dialoga sempre tramite una fotografia decadente, che omaggia Fassbinder, così come da una regia volenterosa di sottolineare un disagio non solo psicologico, ma anche sociale. E’ un linguaggio cinematografico che basa tutto su immagini e allusioni al contrario della violenza esplicita delle azioni.
E’ un azzardo necessario e studiato quello fatto da Guadagnino, che condensa in quest’opera, dalla lunga durata, molta della sua concezione di fare cinema e proprio nel voler fare un amalgama di contenuti dimostra la profonda complessità del suo sogno in celluloide proibito, una virtù singolare e encomiabile, ma allo stesso tempo particolarmente penalizzante.
Suspiria è complesso, si apre a diverse letture e interpretazioni che, proprio come uno specchio, possono mutare a seconda di chi vi si trova avanti.
Coloro i quali cercheranno un semplice horror avranno tra le mani qualche sequenza dalle tinte forti e un’atmosfera cupa; coloro che cercheranno una metafora sociale potranno cogliere rimandi al mondo di allora ed a quello moderno; mentre coloro che cercheranno un collegamento con Jung e la psicoanalisi avranno, in altrettanta maniera, di che rimanere soddisfatti. Guadagnino, furbescamente, realizza un ritratto post-moderno a sua immagine e intenzione, colma fino all’inverosimile la storia di simboli e simbologie arcane, guarda a Freud ed al transfert come se cercasse di mettere sempre più in secondo piano il brivido più istintivo ed immediato, andando alla ricerca di un terrore soprannaturale, inconscio, incentrato sugli stravolgimenti psicologici intrinsechi nella protagonista.
Non è casuale che Suspiria faccia leva tantissimo sui conflitti interni ed il superamento di essi, sull’affermazione del proprio ego, il superamento del super-io, su quanto peso possa avere la consapevolezza di se stessi, facendo pressione su un approccio narrativo che esalta il rapporto incentrato sulla dualità analizzato in diverse forme: madre-figlia, alunna-insegnante, paziente-dottore, uomo-donna, donna-donna, accettazione-rifiuto.
E’ la volontà di mettere la propria firma su un progetto vasto e ambizioso, che parla tanto di cinema e prende molto dal miglior cinema di genere, mescolanza di fattori che portano Suspiria ad apparire multiforme e variegato, un insieme di atti e sequenze che conducono ad un finale d’impatto notevole.
Suspiria è un film difficile da digerire ad una prima visione, nasconde continui segreti e rivelazioni poste sul proprio sfondo, fa collegamenti e rimandi iconografici precisi, indirizza l’attenzione verso contenuti che vanno al di là della storia per poi costruire un’allegoria disomogenea su ciò che vuole rappresentare. Un bene che lungometraggi, ancora oggigiorno, possano spiazzare, chiedano di essere rivisti e studiati, presuppongano e richiedano una preparazione da parte del pubblico senza farlo però sentire stupido, creando in lui domande e curiosità, ma Suspiria non sembra, a volte, sapersi trattenere nel voler prediligere una orizzontalità nei propri contenuti, mettendoli tutti sullo stesso piano, tutti insieme creando un’indigestione complessa da mandare giù persino per gli stomaci più allenati. Non sarà l’horror più bello degli ultimi anni, né il miglior film di Guadagnino, è privo di tutto ciò che aveva il capolavoro di Argento, con cui questo non può competere (e non sarà nemmeno messo a confronto da molti cinefili), eppure Suspiria sa regalare momenti forti, importanti, scene memorabili e interpretazioni diversificate, oltre a godere di un cast di tutto rispetto: un’analisi a tutto tondo sulla genesi del male, un racconto di formazione destinato a ribaltare la cultura patriarcale del dopo guerra tedesco. Improbabile capolavoro psicologico, dramma allegorico esoterico di notevole pregio, futuro oggetto di analisi e degno del titolo di cult.