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Social freezing: nuove frontiere, vecchie barriere

 

Pochi giorni fa, il Presidente Enrico Rossi ha orgogliosamente annunciato su Facebook che la Toscana è al lavoro per creare una banca di ovociti congelati.

 

Il cosiddetto “Social egg freezing”, già praticato nei casi in cui la donna presenti particolari patologie o sia sottoposta a terapie (chemioterapia in primis) che condannano a un esaurimento ovarico precoce, potrebbe così diventare un’opportunità concreta per tutte coloro che, pur essendo sane, desiderano, spinte dalle più svariate motivazioni, posticipare la gravidanza. La pratica, già ampiamente diffusa negli Stati Uniti e promossa a gran voce da colossi come Apple , consiste nel prelevare e congelare gli ovociti di una donna ancora in età fertile per poterli utilizzare in età più avanzata, quando la probabilità di successo di un concepimento si riducono drasticamente. In particolare si procede con la somministrazione di ormoni follicolo-stimolanti o di inibitori degli estrogeni allo scopo di stimolare l’ovulazione. Gli ovociti così liberati sono aspirati e prelevati a livello uterino e in seguito conservati in azoto libero a bassissima temperatura  per evitare l’invecchiamento della cellula, mantenendola potenzialmente “fecondabile”.

Ma il rischio concreto è quello di un nuovo controllo sul corpo delle donne, un controllo ancora più subdolo delle vecchie costrizioni del patriarcato, perché spacciato come una ragionevole via di conciliazione fra famiglia e lavoro, ma che di fatto si traduce nella possibilità da parte delle aziende di ridurre i congedi di maternità. Assumere donne corrisponde ad assumere future mamme che per un certo periodo di tempo si renderanno improduttive. E in un mondo di uomini fatto per gli uomini, il congelamento degli ovociti, al contrario di orari flessibili e asili aziendali, si presenta come un valido escamotage. Poco importano il pericolo di un’età eccessivamente avanzata dei genitori e di una riproduzione sempre più  meccanizzata e sempre più slegata dalla sessualità, con tutte le conseguenze socio-economiche che possono comportare.                                                           D’altro canto, si ha gioco facile nel far leva su quel desiderio, indotto da dinamiche sociali e logiche di mercato, che spinge le donne ad essere sempre più simili agli uomini, a quegli esseri a cui la natura sembra aver concesso il privilegio di una pressoché continua produzione di cellule gametiche.

Il Social freezing si porrebbe, dunque, come un espediente bio-tecnologico per il superamento di un complesso e poco compreso problema di natura sociologica. Nessuno si sognerebbe di imporre limitazioni alla vita riproduttiva di un uomo, tantomeno di spingerlo a stravolgere la propria natura. Ma nei confronti di una donna queste limitazioni e questi stravolgimenti appaiono più che motivati. Ma sul perché questi  risultino più ragionevoli in un caso piuttosto che nell’altro, molto si è scritto, senza, però, riuscire a convergere a una verità universalmente riconosciuta e accettata.

Ciò che è certo, è che si è ancora ben lontani dalla tanto agognata quanto utopistica parità dei diritti. Si è, piuttosto, di fronte a una nuova barriera, a un nuovo modo di limitare quella particolare specificità che caratterizza l’essere umano femmina; di spingerlo ad abolirsi come sesso riducendosi a mera entità produttiva, negandogli di fatto un’identità riproduttiva.

Si ringrazia Lorenzo Innocenti per il contributo.

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