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“Sempre cento so’ “- La semplicità della trasposizione dei Soliti Ignoti incanta il Goldoni

 

LIVORNO – Mercoledì scorso 21 gennaio è andato in scena “I soliti Ignoti”, trasposizione teatrale dell’omonimo film di Mario Monicelli (1958), a cura della compagnia teatrale napoletana “Gli Ipocriti”.

Il pubblico livornese, intrattenuto dalla comicità dell’opera, ha riempito la platea e i primi tre ordini del Teatro Goldoni di Livorno, incuriosito probabilmente dall’appeal del capolavoro cinematografico di Mario Monicelli. 

La commedia, semplice, realista e lineare come l’originale film, è sicuramente stata un prodotto differente dagli attuali film italiani. Non più scenari surreali, relazioni sentimentali contorte e trame lontane dalla realtà, ma un tuffo nei problemi e nelle verità del dopoguerra italiano. 

Gli spettatori hanno pertanto sicuramente assistito a qualcosa di tangibile, raccontato con una drammaturgia semplice e appassionante. Il neorealismo dell’opera, in ogni caso, nonostante la sua spontaneità, ha saputo raccontare egregiamente la vita, la storia e le psicologie dei vari protagonisti, che hanno rappresentato le facce dell’allora Italia. 

Esemplare a riguardo si cita il monologo e la frustrazione di Cosimo Proietti (interpretato da Augusto Fornari), raccontata dopo essere stato investito mortalmente da un tram per un tentato scippo. Il dialogo, infatti, è stato una ragguardevole sforzo di sintesi, teso a raccontare l’esperienza, i rammarichi e la vanità e gli insuccessi di un ladruncolo di borgata romana. 

La Trama (Luigi Marri)

L’adattamento teatrale è stato molto fedele alla sceneggiatura e allo spirito del film. Ambientato nelle povere periferie costruite dai palazzinari nel dopoguerra, narra le vicende di un gruppo di ladruncoli che organizza un apparentemente facile colpo al Monte di Pietà.

La soffiata proviene da un compagno di carcere di Cosimo, impossibilitato a realizzarlo per via della detenzione. Riesce però a farsi dire i dettagli necessari a realizzare il furto Peppeer Pantera”, un balbuziente pugile suonato e, cosa rara, incensurato. Il personaggio interpretato in origine da Vittorio Gassman prepara dunque il colpo con una sgangherata e comica banda di poveri e ignoranti che nelle loro vite hanno vissuto di espedienti e in situazioni al di fuori della legalità. I componenti sono il vecchio Capannelle, ometto con un forte accento del nord e sempre dileggiato, Tiberio (nel film Marcello Mastroianni), uno sconsolato fotografo e padre di famiglia con la moglie in cella, Michele, un orgoglioso siciliano che tiene la sorella Carmelina (Claudia Cardinale) chiusa in casa per conservarne l’onore in vista di nozze programmate, e infine Mario, il più giovane del gruppo e innamorato di Carmelina. Da ricordare anche l’interpretazione di Totò nelle vesti di Dante Cruciani, che tenta di insegnare agli aspiranti ladri come aprire una cassaforte in una un’iconica scena sul tetto di un palazzo.

Il piano è semplice: introdursi nella casa adiacente al Monte di Pietà abitata da due anziane signore in loro assenza, fare un buco nel muro di confine e impadronirsi della cassaforte. L’improvvisazione della banda emerge tutta insieme quando, una volta dentro la casa, bucano una parete interna all’abitazione invece di quella confinante con il Monte di Pietà. E allora, invece della cassaforte, si accontentano di un bottino di pasta e ceci. Sul giornale, il giorno seguente, ci sarà la notizia del tentato furto. Chi è stato? I soliti ignoti.

Il raffronto con il film (Nicola Pomponio)

Quella di Vinicio Marchioni, insieme interprete e regista, è stata un’operazione da lui stesso definita come sperimentale. In effetti trasporre un’opera cinematografica a teatro, trattandosi peraltro di un film che si adduce a ironico e geniale specchio di una società a noi lontana, non è mai cosa semplice. Anzi ne può rappresentare un rischio e financo un limite, a maggior ragione quando ci si pone al cospetto di un’icona del cinema italiano. Ma quando lui stesso, insieme alla sua compagnia, hanno constatato che tra loro e le platee si creava una giusta alchimia, hanno pensato che questo lavoro artistico potesse funzionare. Benchè con una proposta simile sia facile avvicinarsi a quello che è un mero intrattenimento, un modo per allietare arbitrariamente il pubblico come fosse davanti alla televisione, questo pericolo viene scongiurato grazie soprattutto a un percorso di riflessione che questo racconto riesce a regalarci. Chi è dotato di spirito critico è spinto necessariamente a riflettere sulle differenze tra l’Italia di quel tempo con quella di ora. E nota come si sia persa la grazia e la leggerezza che caratterizza quei personaggi, nonostante la miseria e l’ignoranza cui erano costretti da una società che stava profondamente cambiando, a loro discapito. La loro ingenuità, la capacità di prendersi in giro e di provare emozioni infantili e genuine si sono tramutate oggi in aggressività e nevrosi. Chi si trova oggi ai margini della società, così come lo erano Tiberio, er Pantera e il resto della combriccola, reagisce in maniera assai diversa, più violenta e autodistruttiva rispetto agli scalcinati “soliti ignoti”. Per trasferire tutti questi aspetti, da quelli drammatici a quelli sociologici, l’adesione di Marchioni al film è stata (quasi) totale: l’aggiunta del quasi è dovuta a delle piccole trovate personali di regia che sono state utilizzate per filtrare nella modernità quell’epoca lontana. Tentativo opinabile ma probabilmente necessario ai fini della scrittura di scena. Un adattamento che comunque non ha dissipato l’urgenza dei personaggi, il loro disordinato muoversi con l’obiettivo di superare con i mezzi che gli si pongono davanti la miseria che li affligge. Le dinamiche ricreate giocano sulla vitalità e il flusso incessante di imprevisti e peripezie che accadono. Quella di Vinicio Marchioni è una trovata che, se non relegata a semplice riproposta, in chiave nostalgica, di un’opera rimasta impressa nell’immaginario collettivo, ma viene vista come una possibilità di un viaggio nel tempo fatto di risate e spunti di riflessione, può diventare un prodotto utile e interessante per risvegliare un pubblico troppo spesso assuefatto.

Scenografia  e luci (Luigi Marri)

Ricreare i contesti scalcinati del film sul palco di un teatro non deve esser stato facile, tanto più facendolo quasi solo con un’unica struttura in ferro. Molto elaborata e versatile, ha svolto l’arduo compito di rappresentare un carcere, i ballatoi della corte del palazzo in cui abitano Michele e sua sorella, gli interni delle abitazioni, la strada e il terrazzo con le lenzuola stese. Certo, non sempre le ambientazioni delle scene erano troppo evidenti e aver visto il film senz’altro era d’aiuto, ma non indispensabile.

Ogni elemento della struttura centrale era funzionale a richiamare un contesto povero ed essenziale allo svolgimento delle scene. A partire dal basamento grigio che ricorda il cemento armato delle periferie anni ‘50, fino ai pannelli dell’architrave a simulare dei vetri sbeccati, passando per le impalcature mobili a mezza altezza utilizzate durante l’effrazione. Sullo sfondo, un pannello dipinto con una larga strada con ai lati una cortina di edifici come a estendere lo spazio della scena. A fine rappresentazione si è rivelato essere mobile e diventare il muro che gli aspiranti ladri forano, erroneamente.

La ricostruzione della scenografia a cura di Luigi Marri

Il nostro giudizio (Paolo Gambacciani) 

Concludendo, siamo stati intrattenuti da un’opera originale e piacevole. Mai noiosa, ma tuttavia migliorabile. A riguardo, la pausa tra i due atti ha interrotto bruscamente la narrazione e poteva essere eliminata, così come si evidenziano inizialmente alcuni problemi da parte della regia sui microfoni degli attori, difficoltà tecniche che hanno reso le battute dei primi dieci minuti dell’opera difficilmente udibili. 

Complessivamente, consigliamo comunque ai nostri lettori di assistere a questa rappresentazione teatrale, per divertirsi e riflettere ancora sulle storie personale raccontate con semplicità dall’opera cinematografica di Mario Monicelli.

 


Hanno contribuito all’articolo Nicola Pomponio, Luigi Marri e Paolo Gambacciani 

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