A Selma, di fronte al ponte Edmund Pettus, un uomo inspira l’aria secca del sud degli Stati Uniti, si schiarisce la voce, rilegge il discorso che dovrà pronunciare ad una folla determinata, arrivata da tutta America per ascoltarlo.
Quest’uomo, così atteso e così eloquente, carismatico e sicuro di sé, parla di futuro, di speranza, di diritti e di battaglie ancora da vincere. L’oratore in questo caso non è Martin Luther King ma il suo erede spirituale: il Presidente degli Stati Uniti d’America Barack Hussein Obama, che qualche giorno fa era in Alabama per celebrare il cinquantesimo anniversario della marcia che cambiò l’America.
Poche ore prima del discorso un diciannovenne, mio coetaneo, era stato ucciso dalla polizia nel Wisconsin, era disarmato ma afroamericano. L’ ennesimo caso di violenza su una minoranza che, nonostante le vittorie ottenute nel campo dei diritti civili, si sente ancora minacciata per il colore della propria pelle. Per il Presidente Usa, Selma è uno di quei luoghi dove si è decisa la storia, che simboleggia “l’audacia del carattere americano” infatti “cosa c’è di più americano di quello che è successo in questo luogo? Cosa potrebbe più profondamente rivendicare l’idea di America che persone semplici e umili – gli oppressi, i sognatori di bassa estrazione, nati non nella ricchezza o nel privilegio, di molte tradizioni religiose – che si uniscono per formare e cambiare il corso della loro nazione?”. Ma sarebbe un errore “suggerire che il razzismo sia ormai bandito” o che il lavoro che portò gli attivisti per i diritti civili dell’epoca a Selma “è completato”.
Obama ha aggiunto che la storia razziale della nazione “getta su di noi la sua lunga ombra” e che “sappiamo che la marcia non è ancora conclusa, la corsa non è ancora vinta”. Obiettivi ancora da conquistare quindi, come hanno dimostrato i fatti di Ferguson e la conseguente attenzione mediatica internazionale sulla questione del razzismo negli Stati Uniti. “Il cambiamento dipende da noi, dalle nostre azioni, da quello che insegniamo ai nostri figli” ma Obama rifiuta “l’idea che nulla sia cambiato. Chi lo ritiene dovrebbe chiedere a qualcuno che è vissuto a Selma, a Chicago o a Los Angeles negli anni 1950”. Che molto sia stato fatto lo testimonia l’intervento di John Lewis, deputato al Congresso, ferito durante la manifestazione cinquanta anni fa: “Se qualcuno mi avesse detto allora che avremmo avuto un Presidente afroamericano e che sarei stato io ad introdurlo, gli avrei detto che era matto”. Obama elogia il lavoro dei manifestanti del 1965, ma pensa al futuro e rilancia, ponendo l’attenzione sulle nuove battaglie per i diritti civili ancora da vincere. Infine “La parola più potente nella nostra democrazia è la parola “noi”. We The People. We Shall Overcome. Yes We Can. Non appartiene ad alcuno. Appartiene a tutti. Oh, che glorioso compito ci è dato, cercare continuamente di migliorare questa grande nostra nazione”.
Nonostante le aspre critiche dei Repubblicani, fattesi più forti dopo la vittoria alle elezioni di Mid Term, il Presidente Obama conferma la sua statura politica e la sua capacità rappresentare l’America migliore.
Lamberto Frontera