Decidere di portare sul grande schermo la storia o i momenti chiave dell’esistenza di qualche personaggio famoso, vivo o deceduto che sia, non è mai semplice; per questo motivo I’m Not There, quinto film diretto da Todd Haynes, può sembrare un azzardo sotto tutti i punti di vista, poiché si presenta ufficialmente come un biopic sulla vita del cantante Bob Dylan. Il menestrello del rock (all’anagrafe Robert Allen Zimmerman) al suo attivo vanta la bellezza di 58 album (di cui ben 35 sono stati registrati in studio, 13 Live e circa 12 raccolte), una nomination al Premio Nobel per la letteratura (edizione del 1997), un Oscar per la miglior canzone e il premio Pulitzer vinto nel 2008 con menzione speciale. Presentato alla 64° Mostra del Cinema di Venezia, Io Non Sono Qui ha convinto gran parte della stampa presente alla cerimonia e si è aggiudicato, a fine corsa, il Premio Speciale della Giuria (presieduta da Zhang Yimou) e la Coppa Volpi per la miglior interpretazione; ma come spesso abbiamo avuto modo di dimostrare, vedere o pensare, talvolta i più alti riconoscimenti accademici sia in America che in Europa non sono sinonimo di merito. Per questo motivo Uninfonews.it ha deciso di recensire l’ultimo film di Haynes, il quale non solo ha il difficile compito di portare sul grande schermo la vita di un’icona (ancora vivente) della musica leggera, ma anche di dar prova di saper gestire un cast composto da attori di primo livello quali: Christian Bale, Cate Blanchett, Heath Ledger, Richard Gere, Charlotte Gainsbour e Ben Whishaw. Ci sarà riuscito? La vita di Dylan può adattarsi al cinema e alla macchina da presa? Haynes avrà saputo sfruttare tutti gli attori a sua disposizione? Se cercate delle risposte, o siete unicamente spinti dalla curiosità, leggete l’articolo che Uninfonews.it ha realizzato per voi! Buon proseguimento!
In I’m not There ogni storia esprime un aspetto della personalità di Bob Dylan e ogni storia è stata girata in una maniera diversa, in uno stile adatto al tema. Dagli inizi della sua carriera come cantante Folk, alla conquista dell’apice del successo nei primi anni ’60, dalla controversa svolta verso il rock, all’incidente in modo e al conseguente ritiro dalle scene, fino all’ultima parte della sua vita privata e professionale.
Come ha già detto qualcuno, Io non sono qui è un film fantasma, una pellicola che vuole parlare di Bob Dylan, ma che in verità non menziona mai il famoso cantautore durante l’intera vicenda. E’ un prodotto astratto, quasi surreale e ciò viene reso possibile grazie ad una sceneggiatura (realizzata con l’ausilio di Oren Moverman) particolarmente ispirata ed una regia sicura. Todd Haynes mostra al grande pubblico non solo il modo in cui percepisce l’uomo, l’artista, il poeta, ma sperimenta un nuovo tipo di cinema, un modo inedito di narrare l’esistenza di un’icona del rock che strizza l’occhio, allo stesso tempo, a chi ha fatto la scuola della settima arte. Non vi sono incertezze nel dire che il lungometraggio gode della visione strettamente personale da parte del regista di Safe, il quale mette fin da subito in evidenza (dalle prime inquadrature) il modo in cui egli ha concepito l’intero film. I’m Not There non è certo una pellicola priva di lacune, ma una volta entrati nel meccanismo e nella logica di chi l’ha realizzata, l’intera storia appare ben chiara e nient’affatto complessa; certo, in un primo momento si può rimanere spiazzati, sopratutto a causa del montaggio e della totale assenza di indicazioni o precisazioni spazio/temporali riguardo a chi abbiamo di fronte ed è proprio per questo motivo che consigliamo, a chiunque sia intenzionato a vedere questo lungometraggio, di leggere o studiare anche solo una piccola parte della storia di Dylan, in modo da cogliere in ogni singolo aspetto la bellezza di film di cui state leggendo la recensione. La regia non soffre mai di momenti particolarmente statici o cali tecnici, riuscendo a reggere in modo eccellente i 135 minuti che compongono l’opera. C’è, tuttavia, da sottolineare come la telecamera riesca a cambiare ed evolversi a seconda di quale personaggio appaia sulla scena, variando da sequenze realizzate esclusivamente in bianco e nero, fino a girare scene dal taglio puramente documentaristico. Ci sono, inoltre, numerosi riferimenti, abbastanza espliciti, al cinema di Bergman, a quello di Godard e a Fellini, omaggi che da una parte mettono in luce l’amore del regista per il cinema e che allo stesso tempo non risultano essere fini a se stesse, ma ben coerenti con quanto mostrato sullo schermo. Lontano, dunque, anni luce dalle classiche biografie e ripudiando gli standar hollywoodiani, Haynes cerca di far un dipinto completo dell’epoca in cui è vissuto il suo menestrello, senza dimenticarsi di raccontare i risvolti sia sociali che politici degli anni 60, 70 e 80, ma ben amalgamandoli alla sfera privata ed emotiva del giovane Dylan. E’ proprio su quest’ultimo che a livello di sceneggiatura viene fatto il lavoro più rischioso ed allo stesso tempo meglio riuscito, poiché non si è cercato (come ci si poteva aspettare) di mettere l’autore di Like a Rolling Stone davanti alla cinepresa, nero su bianco, e farlo recitare o cantare, ma si è pensato di cogliere l’anima e l’essenza di quest’ultimo inserendola in ben 6 personaggi che ne rappresentano lo spirito ed il carattere in contesti altrettanto differenti. Una mossa, senza alcun dubbio, vincente e che permette a I’m Not There di essere un biopic capace di brillare di luce propria.
Vengono così passate in rassegna vari momenti della vita di Bob Dylan a partire dagli anni in cui era ossessionato dalla musica di Woody Guthrie, in età giovanile, fino al suo ritiro dalle scene. Tutte queste fasi vengono interpretati da ben 6 attori differenti, i quali non vestono mai (in modo esplicito) i panni di quest’ultimo né portano il suo nome. Marcus Franklin, qui straordinario se considerata la giovane età del ragazzo, rappresenta l’adolescenza di Dylan, la sua passione per i cantanti Folk e le prime esperienze musicali. Christian Bale, che qui ricopre in modo più che convincente ben due momenti della vita del cantautore, interpreta, in un primo momento, Jack Rollins un’artista alle prime armi, negli anni sessanta, nonché vera icona emergente della nuova musica americana; mentre, nella seconda parte si cala nella parte del pastore John che simboleggia la rinascita Cristiana di Dylan, nel periodo in cui incise il disco Saved. Si passa poi ad un ottimo Heath Ledger che veste i panni di Robbie Clark, un giovane attore di talento che ha a che fare con il divorzio dalla moglie Claire, interpretata da una magnifica Charlotte Gainsbour e che dovrebbe rappresentare, nella realtà, Sara Dylan. Le scene che vedono i due protagonisti sono le più romantiche e delicate, dove emerge in modo molto chiaro l’aspetto umano e la psicologia di Zimmerman ed il suo burrascoso rapporto con le donne e la famiglia, ma sono anche quelle dove meglio viene rappresentata la realtà sociale e la linea di governo degli anni ’60, con annessi scandali politici e guerra del Vietnam. Inoltre qui, in una particolare sequenza, c’è un chiarissimo omaggio al film “Il maschio e La Femmina” di Godard. Richard Gere è stato ingaggiato per la parte del fuorilegge Billy the Kid, che risulta essere non solo, metaforicamente, la rappresentazione del ritiro “momentaneo” di Dylan dalle scene e dai riflettori di tutto il mondo a seguito dell’incidente sulla moto, ma anche della partecipazione del cantante ai film quali Pat Garret and Billy the Kid, questo è possibile intuirlo sopratutto grazie alle scenografie. Gere, proprio come nei suoi anni migliori, da prova del suo talento e non possiamo non promuovere la sua performance, che è, tuttavia, forse la meno ispirata delle sei. Ben Whishaw è il poeta Artur Rimbaud. L’attore è forse troppo sacrificato e fa solo da supporto tra un avvenimento e l’altro, ma il suo personaggio è essenziale nella ricostruzione della biografia e la nuova promessa francese fa, ad ogni modo, una prestazione più che soddisfacente.
In tutto questo ben di Dio l’apice recitativo lo raggiunge indubbiamente Cate Blanchett, qui chiamata per interpretare Jude Quinn, ovvero il Dylan del periodo della svolta rock, dell’abbandono del folk e del tour fatto in Inghilterra. All’attrice australiana era stato dato, sotto un certo aspetto, il ruolo più complesso, non solo perché il suo Quinn è quello più simile (se non identico) esteriormente alla controparte reale, ma anche per il semplice fatto che quest’ultima doveva calarsi nella parte di un uomo. Senza dilungarci troppo basterà dire che la Blanchett offre al suo Quinn un volto dall’incredibile fascino androgino come pochi se ne sono visti recentemente sugli schermi e fa ciò che viene richiesto ad un vero attore, ovvero interpreta (e non imita) il personaggio affidatole. Il risultato finale è senza ombra di dubbio strabiliante. Movimenti, voce, espressioni (tristi, ribelli, malinconiche) e aspetto sono talmente realistici che più volte si è portati a domandarsi se sia veramente una donna a vestire i panni di Jude Quinn/Bob Dylan. Anche tecnicamente la pellicola, con lei protagonista, giunge alla massima espressività, arrivando persino a collegarsi a lungometraggi come Otto e Mezzo di Fellini e riempiendo la scena di quel vago senso di surrealismo e totale irrealtà quasi onirica. Ottime, in fine, le scenografie e la fotografia che cambiano in continuazione senza mai essere artificiose, apparire fuori luogo o troppo elaborate. Eccezionale la colonna sonora ricca di arrangiamenti e cover di pezzi famosi del cantante del Minnesota tra i quali citiamo Just Like a Woman, Moonshiner e I Want You.
I’m Not There è una pellicola che consigliamo non solo ai fan di Dylan, ma anche a tutti coloro a cui piace la buona musica, le biografie ed il cinema. Questo è senza dubbio un prodotto realizzato in un modo molto personale, la cui unica nota stonata risulta essere, appunto, l’approccio inizialmente non facile, con cui ci si pone ad esso. Eppure Todd Haynes riesce a cogliere l’essenza, la natura, la filosofia, la parte migliore e peggiore del giovane cantautore folk, filmando un biopic che convince sotto tutti i punti di vista e supportato da una sceneggiatura solida (che non fa dell’uomo né un santo né un peccatore), una fotografia di buon livello ed una scenografia ottima. Il tutto, come era possibile immaginarsi, arricchito dalle canzoni di Bob Dylan, reinterpretate da artisti minori, poco conosciuti o membri del cast. Un film che può fare affidamento anche su un casting stellare, dove a brillare più di ogni altro astro è proprio Cate Blanchett, che mette a nudo il suo incredibile talento rivelando al tutto il mondo di essere un’attrice con la A maiuscola e realizzando quella che, fino ad oggi per noi, è la sua miglior interpretazione (giusta quindi la coppa volpi assegnatale a Venezia!). Haynes e Moverman (co-sceneggiatore) portano alla luce l’anima del poeta e la sua visione del mondo, dando vita ad una pellicola bella e imperdibile, ottima non solo a livello contenutistico e espressionistico, ma anche nella messa in scena. Bob Dylan in Io Non Sono Qui non appare mai, se non all’ultimo minuto, dove lo vediamo suonare tranquillamente la sua armonica ad un concerto, eppure dire che la presenza di quest’ultimo, durante la visione del film, non si sia mai avvertita sarebbe una bugia perché in tutti e sei i personaggi mostrati vi è qualcosa di lui, che questo sia un movimento, un’espressione, uno sguardo, una parola, una frase, una nota, un sorriso, tutto ciò non fa altro che ricordarcelo. Concludiamo questa recensione con un monologo pronunciato da Jude Quinn sulla musica:
Quinn/Blanchett: … Si è molto soli, ma la musica tradizionale è troppo irreale per morire e non ha bisogno di essere protetta. In quella musica c’è la sola vera valida morte che si può provare oggi…insomma da un gira dischi. Ma ovviamente come per tutte le cose a grande richiesta la gente vuole possederle. Ha a che fare con…tipo…è purezza direi; la sua insignificanza credo sia sacra. Tutti credo sanno che…non sono un cantante Folk…
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