Recensione di Sospesi nel Tempo
Prima che Peter Jackson diventasse il patrono della Terra di Mezzo, dando alla luce quella trilogia che ha rivoluzionato il fantasy nella settima arte, lasciando un segno indelebile nella mente di tutti, ed ha già fatto la storia del cinema, parliamo ovviamente de Il Signore degli Anelli, assieme alla postilla de Lo Hobbit, e fosse iscritto all’esclusivo club dei trionfatori degli Oscar, con ben tre statuette (Regia, Film e Sceneggiatura) sulle spalle da portare con fierezza assieme alla moglie Frances Walsh vinte nel 2003 per Il Ritorno del Re, questi era un ragazzo come tanti, pieno di ambizioni ed aspettative, nato e cresciuto in Nuova Zelanda, con la passione per Hitchcock e 007, un regista dal potenziale pronto ad essere espresso che doveva cercare di convincere produttori e case cinematografiche famose per finanziare i suoi film.
Fortunatamente nel 1996, Robert Zemeckis, che aveva diretto Forrest Gump e la trilogia di Ritorno al Futuro, si lascia persuadere da questo giovane film-maker e in accordo con la Universal si mette di buona lena nella preparazione e pre-produzione della pellicola Sospesi nel Tempo, da cui è rimasto folgorato, per i temi trattati, l’umorismo e la storia, solo a leggerne la sceneggiatura di base inviatagli sotto forma di racconto di due pagine.
Arrivata finalmente nelle sale, la fatica di Peter Jackson si mostra essere una commedia nera dalle tinte dark, con delle piccole sfumature horror e pulp, quasi dal sapore Burtoniano e capace di richiamare gli esordi di Raimi, ove il plot narrativo si amalgama non solo ad una buona dose di ironia ed autoironia, ma ricerca uno humour assai oscuro e viscerale, nato dagli ectoplasmi dei tanti fantasmi animati sullo schermo che seguono le vicende del giovane esorcista Bannister (Michael J. Fox).
Il tutto prende vita in una piccola e tranquilla cittadina del Mid-West, dove vengono compiuti degli efferati omicidi, capaci di smuovere la sensibilità dell’opinione pubblica e solo il nostro protagonista, assieme all’aiuto dei suoi amici poltergeist, comprende il vero e proprio pericolo che si è sprigionato nella comunità di Fairwater.
The Frighteners, dunque, rappresenta un “ritorno” al primo Jackson, quello a cui piace parlare della “morte”, ma non in modo drammatico come in Amabili Resti, bensì puntando tutto sullo splatter e sull’ironia estrema, graffiate e aggressiva, pur mantenendo toni più pacati ed una messa in scena ricca di virtuosismi che spianeranno la strada a quello stile che grazie al digitale ha trovato, negli anni, piena (ed eccessiva) maturazione. Vi sono tutti gli elementi del cinema di questo signore neozelandese, a cominciare dal cameo tipico che ricorda quelli di Alfred Hitchcock, anch’egli sempre pronto a fare una fugace apparizione nei suoi lavori, fino alla messa in scena ed alle scenografie che, nei luoghi chiusi, rimandano a Psycho, mentre la storia, incentrata sul rapporto tra vivi e morti, con annessa la loro convivenza, non si perita a lanciare qualche frecciatina ad una società borghese e d’élite materialista, insensibile e ottusa, contrapposta ad un protagonista quasi abbandonato a se stesso e incompreso da tutti.
Gli effetti speciali, sebbene figli degli anni ’90, sono di ottimo fattura, tanto che ancor oggi non appaiono né posticci o artificiosi, mentre mostri e atmosfere strizzano molto l’occhio ai vari elementi del Signore degli Anelli (vi è persino possibile fare un paragone tra un personaggio incappucciato con un mantello nero ed un Nazgul) ed il recente A Christmas Carol di Zemeckis.
Danny Elfman, quasi a dare al tutto un tocco dark di Burtoniana memoria, compone, per l’occasione, la colonna sonora, pienamente nelle sue corde, mentre la Weta (agli esordi) si occupa degli effetti speciali.
Difficile dire se Sospesi nel Tempo abbia rappresentato un vero e proprio trampolino di lancio per il regista nato in Nuova Zelanda o se l’abbia messo ancor più sotto i riflettori, considerando che aveva già dato alla luce il bellissimo Creature del Cielo, ad ogni modo questo lungometraggio, dopo quasi vent’anni rimane ancora godibile, composto da comprimari ben caratterizzati, siparietti esilaranti (il migliore tra tutti rimane quello con il Sergente Maggiore Hartman di Full Metal Jacket nel cimitero della piccola cittadina americana) e da una storia, benché poco originale di fondo, ispirata e solida alla base, composta e godibile, intrisa, fortunatamente, di tutte quelle caricature e ironie che sono capaci di rendere il lavoro di Jackson e Walsh un qualcosa da guardare e ri-guardare, a riprova della buona fattura e dell’impegno con cui è stato realizzato.
Comments