Recensione di Sicario
Districarsi in un ginepraio come può essere quello dei film ambientati tra il confine Statunitense e quello Messicano è roba tutt’altro che semplice. Autori di nota fama e di grande maestria hanno cercato, negli ultimi vent’anni, di realizzare lungometraggi degni di essere ricordati, scadendo più e più volte in una ripetitività eccessiva capace di non far decollare la storia, portando il loro prodotto nell’oblio più nero.
Era un rischio davvero non da poco, quello di cui si è fatto carico Denis Villenueve, che nel 2013 aveva dato alla luce lo struggente, ma straordinario Prisoners con protagonista Hugh Jackman, nel ruolo di un padre a cui viene rapita la figlia, intenzionato di farsi giustizia da solo e deciso a non fidarsi della polizia di stato, nella più rurale America conservatrice; l’impianto del primo film sul suolo americano aveva messo in risalto le capacità tecniche del regista canadese, il quale, negli anni precedenti, si era preso a cuore il conflitto religioso fondamentalista con il lavoro La Donna che Canta, grazie al quale può vantare una nomination ai premi Oscar nella propria carriera.
Sicario, tuttavia, rappresentava una vera e propria scommessa, una puntata rischiosa ad un tavolo da poker velenoso dove molte volte chi partecipa perde, per poi lasciare esclamare al banco, del cinico mondo cinematografico, una morale spietata ed un “te l’avevo detto” capace di stroncare intere carriere. L’ultima fatica di Villenueve si mostra ai nostri occhi come una vera e propria sfida, a cui spetta il compito di fornire un prodotto originale, compatto, in linea con la produzione dell’autore, ma al contempo intrigante, che sappia intrattenere e colpire, denunciare e affascinare. A colui che si cela dietro la macchina da presa, a questo giro, è semplicemente chiesto quasi un miracolo.
Tra Messico e Stati Uniti non corre buon sangue, ed i tempi son diventati durissimi, la droga viene spacciata in ogni dove, e al di là del confine, nelle città messicane, i corpi dei nemici dei boss dei cartelli vengono mostrati in pubblico decapitati e mutilati. Durante un’imboscata, come tante, dell’FBI, la giovane ed idealista poliziotta Kate Macer scopre accidentalmente un deposito di cadaveri all’interno di una casa appartenente ad un malavitoso. L’intera abitazione ne risulterà piena, e nel cortile di essa, di lì a poco, un ordigno verrà innescato causando ben due morti tra le fila delle forze speciali. Decisa a fare chiarezza, Kate, considerata idonea dai suoi superiori, per lavorare al confine, si offre volontaria e prende parte ad una task force il cui compito è quello di mettere fine una volta per tutte alle nefaste azioni di guerriglia del cartello messicano. Con il passare del tempo, tuttavia, questa si renderà conto che non tutto è come vuole sembrare e persino tra le unità della polizia ci sono persone e situazione di cui è bene non sapere nulla, decisioni prese senza morale ed etica, che rendono assai sottile il confine tra bene e male.
Sicario è un film notevole, una pellicola come poche e forse una delle migliori mai viste in quest’annata cinematografica. Lo è grazie a tutta una serie di elementi, ma sopratutto, tale merito, va riscontrato in due particolari non da poco: la regia e la straordinaria prova di Benicio Del Toro.
Villenueve continua ininterrottamente la sua personale critica verso gli U.S.A., rivestendo l’America non solo di un ruolo scomodo, ma conferendole quasi una valenza guerrafondaia insita in essa quasi quanto in coloro che cercano di combattere in nome della pace e della giustizia. Se, infatti, altre pellicole sottolineavano come gli Stati Uniti fossero nati attraverso le guerre ed il sangue, con Sicario si torna a parlare di come tutt’ora, il paese etichettato per eccellenza come quello della libertà e delle possibilità, offra all’interno di se stesso tutto un campionario di comportamenti lontani anni luce da una qualsiasi forma di moralità e come particolari territori si dimostrino alienati dal mondo interno, risultando solo lande desolate sulle quali continua a sgorgare sangue innocente.
Esattamente come in Prisoners, dove si denunciava quel tipo di giustizia privata, fatta dall’uomo comune, inevitabilmente destinata a tramutarsi in vendetta, accostandola ad un altro tipo di giustizia, quella legata alla legge pura e semplice, Villenueve anche stavolta coglie tematiche che puntano sull’effimero e superficiale controllo che una nazione pensa di avere sul proprio nemico (molte intestino, che esteriore), dimostrando, al contrario, la propria debolezza e annientamento, in un mondo cinico e spietato dove non esistono regole ed a regnare è solo ed unicamente il caos.
Il confine, che ricorda a tratti il bellissimo Non è un Paese per Vecchi dei fratelli Coen, aiutato, nella estetica e messa in scena, dalla fotografia a dir poco indimenticabile di Roger Deakins, segna un passaggio non solo fisico, ma anche psicologico, che punta nel rendere meno umani tutti coloro che lo affrontano. Così, nel cercare di debellare il male, i protagonisti Sicario diventano se non il male stesso, un’estensione di esso, un riflesso di quest’ultimo sorretto da moduli e pratiche ufficiali capaci di offuscare procedimenti al limite della legalità.
In tutto questo, è Kate, interpretata da una convincente Emily Blunt, che dopo anni di pellicole che l’hanno messa in ombra, finalmente si ritaglia un ruolo forte e incisivo dimostrando il suo talento, a pagarne le spese, a non capire, proprio a causa dei suoi ideali, della sua visione del mondo, della sua purezza, tutti quegli aspetti di un universo che neanche lei stessa credeva fosse possibile. La giovane agente diventa così testimone di un massacro forsennato, realizzato in nome di una Pace che troppo facilmente viene accostata alla parola “ordine”, dove gli interessi economici e politici la fanno da padrone, affinché il tutto si riduca ad essere una spietata sparatoria, uno stallo infinito, dove ad avere la meglio sono solo coloro che piazzano, sulla scacchiera della frontiera, i loro pezzi migliori al momento giusto.
L’intera pellicola, al di là della padronanza tecnica di Villeneuve, che supera se stesso con questa sua ultima fatica, arrivando a toccare (sopratutto nella seconda parte della storia) un linguaggio visivo pressoché perfetto, è anche il film di Benicio del Toro, a cui vengono dati in toto gli ultimi minuti del lungometraggio, momenti nei quali il suo Alejandro esplode sullo schermo rivelando non solo la sua natura, ma il fascino e l’ambiguità nascosta all’interno di questi. Grazie alla prova di Del Toro, sempre composto, mai sopra le righe, eppur in un eccellente stato di grazia, il comprimario dimostra un carisma capace di attrarre l’attenzione del pubblico ogni volta che questi si presenta, senza troppe cerimonie, sulle schermo, sempre sul bordo tra l’essere un uomo distinto ed un assassino a sangue freddo. Nel saper donare l’enfasi giusta ai momenti finali, carichi di tensione, Alejandro sembra quasi rivendicare il ruolo di protagonista, o se non altro di simbolo di questo lungometraggio, che con una messa in scena curata e su cui bisogna solo tessere lodi, non nasconde la voglia di denuncia e critica verso una verità troppe volte celata ai nostri occhi o trasformata per dare coerenza ad un mondo fatto di bugie e inganni.
Sicario è un assaggio indelebile di grande cinema, un’opera degna di chi l’ha realizzata, figlia di un autore che con Prisoners, Enemy e quest’ultimo lavoro, si qualifica come uno dei migliori cineasti canadesi degli ultimi decenni. E’ una parabola schietta e cruda su una realtà che a volte fatichiamo a mandare giù e Villenueve è bravissimo ad abbattere la barriera del Cinema e della finzione per conferire alla sua storia quel qualcosa di realistico riscontrabile solo in lavori come i documentari.
Crudo, realistico, freddo e letale, Sicario è una pellicola da non perdere, una delle migliori su cui sarà possibile posare gli occhi durante la fine di quest’anno cinematografico, uno dei momenti più alti del 2015, un attestato di settima arte coinvolgente, sorretto da un ritmo serrato con il quale Denis Villenueve, ancora una volta, mostra di non aver pudore nell’aver voglia di raccontare la realtà dei fatti, senza retorica e distorsione, priva di enfasi o artifici. Un po’ come quando, per cogliere il drammatico senso della realtà che ci circonda, dei bambini che giocano a pallone la domenica e sentono arrivare dal nulla degli spari, consci che per loro, quelli, rappresentano la normalità quotidiana.
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