Recensione di The Imitation Game
“Cumberbatch si cala nel ruolo di Alan Turing, diventando l’espressione massima del cinema britannico, capace persino di mettere in ombra le lacune della pellicola”
Manchester, 1952. La polizia britannica entra nella casa del professore universitario in biologia matematica Alan Turing, inventore della macchina elettro-meccanica di autodecrittazione, per indagare su una segnalazione di furto con scasso. Scavando nel passato dell’uomo gli investigatori scoprono che è sparita ogni traccia del suo passato militare ma le indagini vengono presto sospese perché il professore viene incarcerato con la pesante accusa di atti osceni e poi condannato per omosessualità e alla castrazione chimica. Questa la triste a amara fine del pioniere dell’informatica moderna che ebbe il merito di decifrare i codici della macchina tedesca Enigma durante la II Guerra Mondiale.
Recensione
The Imitation Game potrebbe essere di certo un degno protagonista della stagione dei premi Oscar del 2015, questa ipotesi si è presto trasformata in una certezza e ha sempre preso più consistenza con il passare dei giorni e dei mesi, già ancor prima che la pellicola del norvegese Morten Tyldum arrivasse ad essere distribuita nei cinema di tutto il mondo e che potesse essere gustata non solo dalla critica, ma anche dal pubblico. Aveva infatti affascinato e colpito i membri del Toronto International Film Festival ed aveva spalancato le porte trionfante a quel London Film Festival 2014, mettendo nero su bianco il proprio potenziale e conquistando in tal modo un biglietto di sola andata per la notte delle stelle, ove di certo non si farà superare facilmente dai prodotti in competizione e quest’anno, a dire il vero, ce ne sono parecchi interessanti e poche sono le vittorie scontate per le tante categorie.
Tralasciando i vari discorsi legati ai riconoscimenti e alle tante corse sfrenate per gli Academy, Il Gioco dell’Imitazione si presenta ad un primo impatto ai nostri occhi come un biopic puro, ma che tuttavia al suo interno rivela poi un’anima inquieta capace di allontanarsi dai più classici lavori a stampo biografico che abbiamo avuto modo di assaporare nell’ultimo decennio, rivelando or dunque una non originalità che in alcuni frangenti, ad ogni modo, ne limita anche la qualità.
La storia del matematico Alan Turing, genio informatico del 1900, colui il quale, ancor prima che l’uomo ne prendesse coscienza e conoscenza, aveva già in grembo cullato l’idea di una macchina capace di interagire con noi umani, i computer di oggi, in modo diverso certo, ma capace di poterci accompagnare nella vita di tutti i giorni, sottolineandone e comprendendone immediatamente anche il pericolo e la responsabilità dell’uomo verso essa, viene qui elaborata richiamando alla nostra mente tanti piccoli dettagli estrapolati da molti altri lavori recenti. Prendiamo ad esempio atto che la pellicola si presenti puramente come un grande mosaico, un rebus elaborato, difficile inizialmente da decriptare ove si fa difficoltà a familiarizzare nell’immediato per via dei tanti flashback; ma al tempo stesso questi si dimostra curato e intelligentemente costruito affinché l’attenzione sia sempre alta, dove non vediamo mai un calo o un momento particolarmente tedioso; aggiungiamo poi a tutto ciò la volontà di voler inscenare una storia tutt’altro che lineare, ma comunque coerente con quanto narrato e di proporre di volta in volta ben tre di quelle che saranno le fasi principali della vita di Turing, vale a dire: la sua infanzia, il lavoro fatto sotto copertura durante la guerra e la sua vita dopo la guerra, negli anni ’50 quando fu accusato di atti osceni per via della sua omosessualità e costretto alla castrazione chimica.
Questi elementi, legati alla costruzione della narrazione, vengono presi in prestito in modo esplicito da pellicole quali The Social Network di David Fincher, che tutti ricorderanno essere costellato di flashback, mentre le scenografie ed i costumi ricordano di tanto in tanto quelli di Tinker Taylor Soldier Spy (La Talpa) e non è casuale, dato che a curarle è la stessa persona: Maria Djurkovic. Si aggiunge poi una certa adesione al mondo televisivo britannico, quasi a volersi accostare ad esso rivelandone il potenziale e immolandosi come espressione massima del piccolo schermo.
Il tutto si sposa quasi sempre alla perfezione, dimostrando così che Tyldum, pur peccando di poca originalità e coraggio, riesca, esattamente come il collega scandinavo Alfredson, comunque a orchestrare una storia compatta e capace di poggiare su delle basi ben solide, non solo grazie alla sceneggiatura datagli da Graham Moore, ma anche e sopratutto per gli attori a disposizione senza ombra di dubbio di un certo calibro.
Perché The Imitation Game è un prodotto che vuole essere tante cose, in primis parlare, spiegare e raccontare un retroscena magari poco conosciuto della seconda guerra mondiale senza appesantire troppo l’intrattenimento, puntando non tanto sul sentimentalismo, ma sulla figura del suo protagonista. Siamo di fronte ad un qualcosa che non toccherà mai, in tutta la sua durata, delle vette particolarmente alte, ma che riuscirà comunque a manifestare un certo disagio ed ingiustizia in modo costante, tanto che la sensazione, magari, una volta finito di guardarlo non sarà quella di appagamento come poteva, ad esempio, capitare con un altro biopic altrettanto interessante come Il Discorso del Re, ove Re Giorgio VI arrivava in fine a parlare, senza balbettare, dinanzi ai suoi sudditi pur dicendo loro che sarebbero andati in guerra e dove dunque si assisteva ad un trionfo personale che coincideva con una dichiarazione di morte generale. Con Turing non ci sono trionfi veri e propri, né una voglia di riscatto, bensì una lenta discesa da parte di un genio verso quello che sarà una missione di cui non avrà ufficialmente alcun merito, assieme ad il suo team.
Per questo motivo la pellicola rimane scomoda e non del tutto appagante, perché al tavolo dei vincitori l’illustre informatico non metterà mai piede e l’essenza del tutto si rivelerà quasi un duello criptico a suon di enigmi, uno scontro mentale con una altissima posta in gioco che vedrà la macchina di Turing, Christopher, contro Enigma, mezzo elaborato dalle forze tedesche. Il merito di The Imitation Game è inoltre quello di voler trattare i fatti nella loro pura naturalezza e semplicità, senza scadere nel blando patriottismo, puntando sempre su un senso di colpa generale che si può respirare fin da subito, ma mai servito su una patina di superficialità e inscenando una faccia della guerra interessante non legata puramente agli attacchi in campo aperto, ma di quella combattuta dietro al sipario della tragedia, e al di là delle numerose strategie belliche forse è proprio nel dietro alle quinte che si prende coscienza del vero orrore, poiché lo stesso Alan capirà, una volta arrivato a decriptare la chiave per decifrare Enigma, che avere la soluzione dei tanti codici non vorrà dire a sua volta vincere a tavolino, un po’ come può accadere in una partita a scacchi quando una mossa dell’avversario intuita in anticipo non significa aver concluso la partita in toto.
In un gioco ove protagoniste sono le macchine, qui viste non come metafora del progresso dell’uomo capace di migliorare il nostro stile di vita, ma vere artefici di distruzione, trovano comunque spazio i sentimenti umani, guidati ivi dal terrore e dalla paura, ma ancor più dalla coscienza di saper di essere diversi. Altro punto cardine è infatti la natura sessuale di Turing, al tempo costretto a non rivelare di essere omosessuale a causa delle leggi del governo inglese, elemento qui preso in considerazione quel tanto che basta per aggiungere un qualche elemento in più alla storia, sottolineando come persino tra le fila del proprio paese non si fosse al sicuro e come la guerra, quella dei diritti della libertà delle persone, non fosse combattuta tra diversi popoli, ma tra uomini e donne appartenenti alla propria cultura.
Comprendendo il potenziale dell’opera, produzione e regista hanno cercato di richiamare a sé l’élite britannica per eccellenza per i tanti ruoli da interpretare e se The Imitation Game è in gran parte un film riuscito è grazie sopratutto al cast assortito e a Benedict Cumberbatch che ci regala quella che per molto tempo probabilmente rimarrà la sua interpretazione cinematografica più memorabile; il suo volto coglie e ripropone ogni espressione umana nei minimi particolari, uno specchio perfetto del nostro animo, anche se le analogie con il vecchio Sherlock Holmes si fanno sentire e si scorgono chiaramente, non solo nella costruzione del personaggio (un po’ arrogante, quasi mai particolarmente simpatico), ma anche per quel che si anima attorno ad esso, a cominciare, ad esempio, da una certa voglia di immedesimarsi in una figura che appare come un vero e proprio outsider del governo britannico. Esattamente come l’ispettore di Baker Street anche Turing è costretto a convivere con i demoni ed i limiti del suo genio, eppure ancora una volta sarà grazie a chi gli vive attorno che questi capirà la sua grande virtù, perché è nella sua “anormalità”, nel suo essere “una anomalia” che sta il suo valore e dietro ai suoi modi ed alla sua freddezza il genio si rivela quello che è davvero: una grande anima capace di trovare il meccanismo per salvare milioni di vite, anche se dietro alle luci della ribalta, in uno scenario oscuro e con le mani sporche di sangue, pur sempre consapevole di ciò che fa, camminando in un sentiero costellato più da oneri che da onori.
Un peccato, ad ogni modo, però notare come le tante attenzioni sul protagonista non siano state riservate ai comprimari, nemmeno più di tanto a Joan Clarke, interpretata da Keira Knightley, che ha tuttavia un ruolo importante, non tanto ai fini della storia puramente legata al conflitto, quanto piuttosto a quelli legati strettamente al suo approccio umano con Turing, poiché esattamente come Martin Freeman nel ruolo di John Watson sarà lei a fare di Alan una persona umanamente migliore facendo cambiare radicalmente idea a coloro che purtroppo lo vedono solo come una macchina cinica e fredda nelle membra di un essere umano.
Commento Finale
The Imitation Game è un film che fa luce su alcune vicende ancor oggi poco note ai più legate alla Seconda Guerra Mondiale, ma non è solo una biografia, è anche una denuncia, un atto di responsabilità ed un’ammissione di colpa; un film che vuole dimostrare i limiti di un paese che proprio nel momento in cui aveva trovato il modo di mettere a tacere una guerra, muovendo un duro scacco alla Germania, non aveva ancora trovato la maturità di accettare la diversità umana, e sta proprio nell’essere diverso che Turing/Cumberbatch convince e fa venire meno, il più delle volte, alcune insipide lacune della pellicola, che ad onor del merito non scade mai troppo nel banale o nello scontato, sebbene si conceda di tanto in tanto qualche riserva sopratutto nel finale. E’ un lavoro, oltre che bello, giusto, non solo nei confronti della Storia, ma anche perché capita nel momento opportuno ad un anno di distanza dalla grazia postuma che la regina Elisabetta ha elargito a quest’uomo, ed anche perché questo è il momento di Cumberbatch, la massima rappresentazione del cinema di sua maestà, ormai icona e sinonimo di qualità assoluta, l’astro più brillante e lucente della nuova generazione di talenti purosangue inglesi, tanto bravo da dare di un geniale matematico non un ritratto retorico o quello scontato di un martire incompreso, ma sentito e emozionate, privo di un qualunque sentimentalismo gratuito, ma genuino. In altre parole quello di un semplice uomo pieno di paure, ma al contempo carico di responsabilità, dalla personalità complessa, fragile e solo, mai veramente a suo agio e mai accettato dalla società, ma sicuro e coscienzioso delle proprie azioni e delle proprie virtù. Una partita a scacchi tra codici, macchine ed orrori, una pellicola che scava in un passato scomodo, nella vita di uno dei padri dell’informatica e dei computer rivelando piccoli, ma importanti retroscena.
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