Recensione di Crimson Peak
Il Fantasma è una delle figure più emblematiche ed affascinanti che la letteratura abbia mai creato, sia che si parli di testi relegati a quella antica che a quella moderna, capace di fungere sia come solo elemento estetico o decorativo, che come simbolo di un qualcosa, o per meglio dire, un qualcuno, un tempo vivo, ma adesso non più, tornato dagli inferi per pura casualità o con uno scopo preciso, assumendo un duplice significato carico di una sfumatura metaforica. Si parli di comuni poltergeist, antichi spiriti irrequieti, minacce o semplici ombre che vagano indisturbate e senza meta, appena percettibili dai nostri sensi, la presenza di queste entità ha goduto, fin da subito, di un certo privilegio all’interno di innumerevoli storie e racconti, ed esattamente come nei libri, anche su pellicola il mondo dell’occulto ha influenzato alcune tra le menti più visionarie e creative di sempre, ed una di queste, al giorno d’oggi, è quella di Guillermo Del Toro, il quale, dopo la parentesi fantascientifica del 2013 di Pacific Rim, torna a narrare una storia più intima, meno spettacolare e divertente, estremamente macabra, ma sopratutto figlia di una letteratura ed un metodo di fare cinema di altri tempi, di cui oggi abbiamo pressoché qualche sbiadito ricordo.
Siamo a cavallo di due importanti secoli, tra il 1800 ed il ‘900, Edith Cushing, giovane aspirante scrittrice, vive a Buffalo, New York, assieme a suo padre, Carter Cushing, proprietario di una modesta rete di industrie locali, che assieme ad altri colleghi mantengono viva l’economia della piccola cittadina, quando casualmente si imbatte in Sir Thomas Sharpe, baronetto inglese, proprietario di una cava di argilla rosso sangue in Inghilterra, venuto in America per cercare il supporto finanziario adeguato da parte del padre di quest’ultima e dei suoi colleghi affinché possa, l’industria di famiglia, tornare ai fasti di un tempo ed alla sua costante produttività. Sir Thomas, tuttavia, non riscontrando successo negli affari, si consola con la figlia del signor Cushing, di cui si innamora, sebbene il padre sia contrario al matrimonio. Venuto questi a mancare in circostanze sospette, e convolati a nozze i novelli sposi, i due decidono di tornare nel vecchio continente, nella magione della famiglia Sharpe, un antico maniero situato in Cumbria, dove ad attenderli vi è Lady Lucille, la sorella di Thomas. Edith capirà, però, ben presto che Allerdale Hall è tutto tranne che un luogo sicuro, e se la casa, da un lato, sembra essere viva, dall’altro non lo sono da meno i fantasmi che sembrano ogni notte costellare i suoi incubi, tanto verosimili da sembrare reali.
Arrivato al suo nono lungometraggio, Guillermo Del Toro, decide di tornare sui propri passi, quelli che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico, donandogli una fama internazionale, grazie ad opere come Cronos, La Spina del Diavolo e lo straordinario Il Labirinto del Fauno, ricercando una forma ed una innovazione che attinge a piene mani da specifici autori e correnti di pensiero, che il regista messicano, con maestria ed attenzione, ripropone ed amalgama in maniera perfetta con un tocco di personalità necessaria a marcare il suo timbro di cinema d’autore capace di unire la realtà al fantastico puro.
Crimson Peak è a tutti gli effetti un racconto gotico, un horror ed un thriller, e nel vederlo, la prima impressione è quella di essere stati catapultati all’interno di una storia scritta nel diciannovesimo secolo, o di avere tra le mani un prodotto lontano anni luce dagli standard odierni, particolarmente oscuro ed invitante, che, proprio come Thomas Sharpe fa con Edith, ci spinge a prender parte ad un valzer di terrore e morte, ove ogni cosa, dal terreno, al pavimento, dalle pareti e al soffitto, della magione desolata, dagli echi Dickiensiani di Grandi Speranze, o da quelli di Edgar Allan Poe con il racconto La Casa degli Usher, sembra trasudare colpa e violenza.
Edith Cushing è l’assoluta protagonista di una classica storia di fantasmi, dai forti richiami vittoriani di un tempo, il cui scopo finale, tuttavia, non è quello di concentrare l’attenzione nel sovrannaturale, sebbene questo sia presente in modo massiccio e accompagni la sventurata per gran parte della vicenda; gli spiriti ultraterreni, esattamente come nell’El Espinazo de Diablo, dal quale Crimson Peak eredita l’impostazione narrativa e il rocambolesco svolgersi degli eventi oltre che alcuni temi importanti, si palesano ai nostri occhi come presenze apparentemente spaventose, che incutono timore e scuotono, nel nostro animo, un’inquietudine interminabile, facendoci credere che non siano altro che spettri malvagi, i quali vogliono unicamente suscitare in noi paura o persino farci del male, ma per Del Toro il male non viene mai da ciò che temiamo, da quello che ad una prima occhiata può sembrare “diverso” o impercettibile, anzi, esso può arrivare più probabilmente da chi non si sospetterebbe mai, perché, in fondo, un fantasma è un qualcosa di puro, rappresenta l’anima del defunto e la sua più intima essenza, ed è per questo motivo che, sradicato da tutti i vizi umani, questi si rivelerà come un qualcosa di completamente diverso da quanto siamo abituati a credere, o a cui gli usi ed i costumi della società ci hanno convito a pensare, al quale Del Toro serva uno specifico compito di emissario, in questo caso, come lo fu, ad esempio, Jacob Marley per Scrooge in A Christmas Carol. Il vero orrore nasce dalle persone, da ciò che bramano, dalla loro perversione, dall’avidità e dal cieco egoismo.
La pellicola, infatti, prende molto a cuore l’elemento della dualità e del contrasto, lo fa inizialmente con la descrizione di una società Americana orientata al futuro e consapevole del proprio potenziale, incredibilmente incentivata a fare la storia e piena di innovazioni tecnologiche, contrapposta ad un’Inghilterra dal sapore antico, decadente e ormai passata, dove non vi è nulla di nuovo che possa dare qualche avvisaglia sul progresso ottenuto, nel mondo, con gli anni grazie all’avvento dell’industria. La campagna della regione della Cumbria sembra vivere in un limbo bucolico perenne, un quadretto drammatico nel quale le persone interagiscono continuamente tra loro come se gli anni si fossero fermati per sempre e dove ogni cosa non ne vuol sapere di cambiare.
A tutto ciò vi si sovrappone un sentito duello di personalità, da una parte abbiamo infatti Edith, timida ragazza figlia della borghesia più progressista, che dal basso si è fatta spazio nella società con la fatica ed il sudore della fronte, intenzionata a scrivere racconti di fantasmi, che ama Mary Shelley (la quale al contrario di Jane Austen “non è morta illibata, ma vedova”) e nutre una ardente passione per la scrittura ed i libri; mentre dall’altra, Lady Lucille, si presta ad essere identificata come una donna dalla personalità forte, sicura e cosciente di ciò che è, cinica e caparbia, che tiene alle tradizioni di famiglia ed in particolare al fratello Thomas. Le due, fin da subito, sono un caleidoscopio di diversità che arriveranno ad una climax finale efficace, tanto potente visivamente da mettere in disparte la figura del baronetto, che nella conclusione sembra assumere quasi un ruolo di contorno.
Del Toro, infatti, ispirandosi ad alcuni dei più classici tra i romanzi gotici dei due secoli passati, sembra, con questa sua ultima fatica, voler fare un grande omaggio a racconti come Lo Zio Silas di Sheridan Le Fanu, I Misteri di Udolpho, Il Castello di Otranto di Walpole e ad alcune novelle di Hoffman. L’intera impostazione sprigiona fin dalla prima inquadratura un attaccamento a quel tipo di letteratura e di cinema che contribuisce a rendere l’atmosfera perennemente ispirata, reale e verosimile, mai artificiosa o artefatta da un senso di già visto; l’illimitato estro creativo del padre di molte tra le pellicole più visionarie degli ultimi anni, si percepisce in ogni angolo, anche quando la telecamera indugia su piccoli aspetti quotidiani o particolari di uso comune come può essere una candela, un candelabro o una tazza di tè. Palesi, inoltre, i rimandi a Alfred Hitchcock e alla sua “Rebecca, la Prima Moglie”, sotto il profilo della sceneggiatura, mentre appaiono, fin dai titoli di testa, altrettanto chiare le orme seguite da Guillermo per la scelta dei colori e della cromatura delle immagini portate sullo schermo, le quali strizzano l’occhio al technicolor usato da Mario Bava per alcuni dei suoi progetti più importanti come i Wurdulac e La Maschera del Demonio, dando così all’insieme di colori un tocco pastello e rilassato che, grazie alla fotografia Dan Lausten, si amalgama perfettamente al genere trattato, tratteggiando una messa in scena forte e potente.
Il film sotto il profilo tecnico è una vera e propria gioia per gli occhi, ogni inquadratura sembra essere studiata con certosina cura, rivelandosi completamente capace di catturare l’essenza in ogni scena senza mai apparire invadente; la telecamera, che abilmente si muove tra una parte all’altra della casa degli Sharpe danza da un piano all’altro, ci guida con scrupolo dentro i più oscuri meandri del maniero desolato intriso di odio ed orrore. A ribaltare tutto ciò vi è una trama che, per quanto coerente e compatta, non si mostra poi particolarmente originale, configurandosi alla perfezione con quel tipo di storie gotiche vittoriane dal retrogusto dei romanzi delle sorelle Bronte, quali Cime Tempestose o il più noto Jane Eyre. Sia chiaro, non avere una sceneggiatura particolarmente potente, tuttavia, non è per forza un punto di debolezza, specialmente quando possiedi una padronanza tecnica da vendere, cosa che accade per Crimson Peak, che se da un lato non ammalierà per la sua storia, dall’altro riuscirà a valorizzarla interamente con sequenze degne di nota e spettacolari, o con momenti ricchi di tensione, percepibili facilmente ad un occhio attento e vigile, che fin dal primo momento contamineranno un racconto che ambisce, nella sua apparenza, a descrivere una perfetta rappresentazione della nostra esistenza.
Vera protagonista indiscussa rimane la magione degli Sharpe, la quale sembra cadere a pezzi da un momento all’altro, che si palesa quasi come la rappresentazione interiore dell’animo dei proprietari, dimostrando una decadenza che da puro elemento estetico o decorativo, si manifesta quale metafora dell’animo umano. Allerdale Hall è un luogo oscuro, costantemente ricoperto di neve, freddo, situato lontano da un qualsiasi centro abitato e costruito su una cava di argilla che, dall’essere la causa della propria fortuna, sembra diventata la motivazione principale di tale decadimento. L’argilla rosso sanguigno, rivestirà le pareti dei sotterranei del maniero, schizzerà via dai tubi dei rubinetti e sgorgherà dal pavimento come il sangue da una ferita, perché in essa si manifesta la colpa degli Sharpe, il loro cuore e la loro natura ambigua, la loro essenza perversa e le reali intenzioni che, come un qualunque thriller che si rispetti, si mostreranno allo spettatore lentamente.
Nel dare un giudizio definitivo a Crimson Peak bisogna tenere in grande considerazione molti elementi, di vario tipo e natura, che hanno un loro peso nell’economia del lungometraggio. La nuova pellicola di Guillermo Del Toro nella sua interezza non mostra, di fatto, un’originalità tale da gridare al miracolo, sotto il profilo della storia, perché il regista messicano sembra essere tornato più sui suoi passi che desideroso di traghettare lo spettatore verso nuovi orizzonti inesplorati, realizzando un’opera con la quale di certo sapeva di avere gran dimestichezza fin da subito, e non è un caso che, nel prendere in analisi alcune tematiche, la sceneggiatura di questo prodotto sia “vecchia” di dieci anni e risalga a quella fase in cui Del Toro diresse El Laberinto del Fauno e La Spina del Diavolo; tuttavia, muovere delle pesanti critiche a Crimson Peak significherebbe snaturarne il grande valore che risiede all’interno di esso e comporterebbe dare meno importanza ad alcuni aspetti cruciali. La storia degli Sharpe e di Edith sembra essere un sentito omaggio al cinema del passato, ma anche e soprattutto alla letteratura e all’arte del 1800, nella sua sfumatura più estetica, ed è in particolar modo grazie a questi elementi descritti, alla cura posta nelle scenografie, nei set e nell’impianto degli effetti digitali utilizzati, alla fotografia dichiaratamente ispirata ai film di Mario Bava ed alla bravura degli attori, specialmente da tenere in considerazione le performance dei tre protagonisti (specialmente quella di Jessica Chastain e Mia Wasikowka), che mostra di avere un animo nobile e sincero, una pura dimostrazione di amore verso un’arte alla quale Guillermo Del Toro continua a servire molta della sua creatività, amalgamandola a tanti elementi di natura diversa, ma incapaci di stonare in una rappresentazione del mondo che è sempre contraddistinta dall’impronta personale dell’autore.
Crimson Peak è probabilmente la pellicola gotica migliore degli ultimi anni, non tanto per l’elemento narrativo, sebbene sia diretta con straordinaria maestria, ma per l’attenzione e le ispirazioni riposte da Del Toro per un genere che ad oggi sembrava quasi completamente scomparso. Come in Shining di Kubrick anche la casa degli Sharpe, sotto un’interminabile tempesta di neve, gode di vita propria e si appresta a rappresentare l’orrore che si è manifestato all’interno, con quell’argilla rossa che si fa metafora delle morti avvenute tra quelle mura, che cola sul volto dei protagonisti diventando un tutt’uno con il sangue e la violenza che scorre da quest’ultimi sui loro corpi. Coloro i quali amano questo specifico genere di storie, ed aspettavano un racconto di fantasmi con una morale forte, nelle corde del regista messicano, che si ispirasse ai classici cinematografici di un tempo come la Jane Eyre di Orson Welles, o ai pittori romantici ed agli scrittori (e scrittrici) Vittoriani come le sorelle Bronte, Charles Dickens, E. A. Poe, Henry James e Mary Shelley, rimarrà soddisfatto di Crimson Peak e di tutti quei particolari che ne contrassegnano l’originalità e la bellezza visiva. L’unica grande critica da fare a Del Toro sta proprio nella scelta di non aver proposto un tipo di cinema nuovo, di essersi “accontentato”, a livello di sceneggiatura, di qualche situazione non particolarmente brillante a causa di una base di partenza poco accattivante o sviluppata a dovere in alcuni frangenti; aspetti che, nel complesso, non rovinano affatto l’esperienza che propone Crimson Peak, la storia di fantasmi migliore di questo 2015, e di certo capace di dare nuova linfa ad un genere quasi scomparso, ma che a tratti fanno sentire il loro peso. Il grande cuore di questa macabra vicenda restano le persone, la loro natura e le loro perversioni, aspetti nettamente più spaventosi dei fantasmi e del sovrannaturale, che condanniamo ignorantemente in quanto differente da noi per natura e perché manifestazione di un qualcosa che non comprendiamo appieno. Il vero orrore, ancora una volta, per Guillermo Del Toro, non viene dai fantasmi, ma da coloro che abbiamo attorno, che lasciamo entrare nelle nostre vite quando, dentro di noi, come in Edith, a dettar legge non è la ragione, ma l’istinto e l’ingenuità.
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