Recensione de Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug
“Prendendo le distanza dal racconto di Tolkien, il secondo capitolo si rivela più audace e ricco di sequenze mozzafiato mostrando un finale carico di tensione e capace di fare da ponte all’ultimo atto”
Introduzione
Dopo aver concluso un primo capitolo non del tutto soddisfacente, ma ad ogni modo gradito dai fan del regista e da chi professa di amare Tolkien e le sue opere, Peter Jackson torna, ad un anno preciso di distanza da Un Viaggio Inaspettato, al cinema portando sul grande schermo il secondo atto di quella che è la nuova trilogia ambientata nella vecchia (e amata) Terra di Mezzo.
Trama
La pellicola, di fatto, dopo un brevissimo prologo nella città di Brea che strizza l’occhio a The Lord of the Rings, non solo per il tempo, ma anche per il luogo designato, le scenografie ed il cameo da parte di chi sta dietro alla macchina da presa già visto esattamente poco più di dieci anni fa, inizia precisamente laddove avevamo lasciato la compagnia dei nani guidata da Thorin Scudodiquercia, alle prese con i mannari ed il temibile Azog che non ne vogliono saper di cessare l’estenuante caccia. Da qui gli eredi della stirpe di Durin, assieme al coraggioso Bilbo Baggins e al saggio stregone Gandalf il Grigio si dirigono verso quella che sarà la casa del mutapelle Beorn, un essere quanto mai singolare ma che nulla ha contro Thorin e la sua missione. Dopo aver goduto dell’ospitalità di quest’ultimo la compagnia si appresta ad arrivare dinanzi ai confini di Bosco Atro, dove deve salutare Gandalf impegnato (sotto suggerimento di Lady Galadriel) ad indagare sul ritorno e l’esistenza del Negromante. Da questo momento Bilbo e i nani saranno catapultati in un vorticoso viaggio senza sosta e ricco di peripezie, arrivando infine ai pendii della Montagna Solitaria ed alle porte di Erebor, vedendosela contro il temibile drago Smaug.
Recensione
Ci sono tanti aspetti che caratterizzano La Desolazione di Smaug e fanno si che questo secondo episodio si allontani anni luce dal primo, ma allo stesso tempo è evidente come Jackson, per aumentare il ritmo, rendere il film più adrenalinico e fluido abbia deciso, senza troppe presentazioni o dubbi, di allontanarsi con coraggio dal manoscritto di John R.R. Tolkien. Quel che ne esce è senza dubbio un prodotto che riesce perfettamente nel suo intento, ovvero di trasportare lo spettatore da una parte all’altra non solo della storia ma sopratutto della mappa della Terra di Mezzo e di saper divertire, intrattenere ed incantare in modo semplice ed efficace. Le numerose differenze tra la controparte cartacea e quella portata sul grande schermo sono tante eppure, in tutta onesta, è difficile indicare l’elemento meno riuscito di tutta l’opera poiché come il regista neozelandese ha già abituato in passato tutti noi, i suoi lungometraggi sono ricchi di quella precisione e cura così maniacale da dar persino fastidio in alcuni momenti; così non viene stravolta solo la storia in sé, ma vengono fatte aggiunte che magari faranno storcere il naso ai puristi come, in questo caso, l’entrata in scena della (bellissima) elfa Tauriel, interpretata dalla giovane Evangeline Lilly. Su di lei è bene spendere due parole, poiché il suo personaggio ricorda in alcuni momenti Dama Arwen, ma risulta fin da subito essere molto più spericolato nonché imprevedibile rispetto all’elfo femmina interpreto da Liv Tyler e sebbene inesistente nel racconto, nel complesso rimane comunque ben realizzato e curato sotto l’aspetto psicologico. Il film, grazie a questa presenza femminile ne guadagna, anche se, in tutta onestà, lasciano un po’ perplesse alcune scelte di sceneggiatura, che solo soggettivamente possono piacere o meno. Tuttavia è bene ricordare che il confronto e l’unione tra due razze ben diverse è sempre stato un elemento cardine della visione che Jackson ha della terra di Arda.
Per quanto riguarda la durata del film quest’ultima si attesta sulle due ore e mezzo abbondanti, ma al contrario di Un Viaggio Inaspettato questi appare decisamente più spettacolare e di gran lunga molto meno lento, ma sopratutto (rullo di tamburi) può vantarsi di un finale a cliffhanger con la F maiuscola, dove il piccolo Bilbo deve vedersela con il temibile Smaug, il più bel drago mai realizzato in tutta la storia del cinema fino ad oggi. Credete a noi, Smaug non è solo un qualcosa di grosso che si muove dentro i meandri di Erebor, egli è un personaggio concreto, capace di rubare l’attenzione dello spettatore, con un suo sinistro fascino, che fa sua la scena non solo visivamente (e qui facciamo un plauso agli effetti speciali che a nostro dire si sono superati) ma anche per quanto riguarda la sua natura ed i dialoghi tra lui e lo sventurato Hobbit, che sottolineano così un lavoro di sceneggiatura fatto da Philippa Boyens, Fran Walsh, Jackson e Gulliermo del Toro davvero sopraffino e da manuale nonché privo, in generale, di sbavature e cali.
Ci sono delle pecche ne La Desolazione di Smaug? Ovviamente non possono mancare alcune cadute di stile o lacune, sopratutto nella prima parte che è palesemente collegata al primo capitolo e persino un occhio poco attento può capire che il primo quarto d’ora doveva essere posto come conclusione di An Unexpected Journey, gioco forza Beorn è un personaggio (quasi del tutto) sacrificato e speriamo di poterlo ammirare di più nella conclusione di questa storia. Per quanto riguarda gli effetti visivi, come detto in precedenza, il lavoro che è stato fatto dalla Weta Digital è d’altissimo livello, tuttavia, a coloro i quali non fosse piaciuta la prima parte è bene mettere in chiaro che anche in questo film l’effetto digitale è molto presente, anche se meno accentuato grazie ad una fotografia che rende il lungometraggio cupo e ricco di inquietudine. La regia è sempre ottima, con lunghe sequenze acrobatiche e capace di cogliere la coralità dell’opera in ogni momento senza mai abbandonare o mettere in ombra un personaggio e se pensiamo a quanti ne sono stati aggiunti in questo secondo film, non possiamo che non apprezzare quanto è stato fatto.
Il cast funziona bene, i nani ormai non sono solo parte dell’ambiente ma bensì della storia e non vengono meno dinanzi ai nuovi comprimari, dove tra tutti spicca, oltre alla già citata Lilly, un magnifico Stephen Fry nei panni del governatore di Pontelagolungo, figura che dovrebbe far suonare in testa qualche campanello a noi italiani ed un magnetico Lee Pace nella parte di Thranduil il re degli elfi. Buona anche la prova di Luke Evans nelle vesti di Bard discendente di Girion, mentre leggermente sottotono, usato per azioni spettacolari (nonché per un “dolcissimo” riferimento/collegamento a La Compagnia dell’Anello) è il Legolas di Orlando Bloom, molto più cupo, meno amichevole e poco propenso a far amicizia col popolo di Durin. Mckellen, Armitage (il cui Thorin assume sempre più i connotati di un personaggio da vero dramma teatrale) e Freeman sono sempre perfetti nei loro ruoli e Cumberbatch riesce a mettere qualcosa di se stesso anche quando gli viene richiesto di interpretare un drago in Perfomance Capture. A proposito di Smaug, sebbene non abbiamo potuto sentire il doppiaggio originale, promuoviamo senza incertezze il lavoro che è stato fatto da Luca Ward, la cui voce non ha nulla da invidiare alla controparte inglese ed è un piacere/terrore sentir parlare il flagello di Durin dinanzi a noi. Ottime, infine, le scenografie e la colonna sonora realizzata da uno Shore molto più ispirato per quanto riguarda i temi e le melodie, del tutto coerenti con quanto accade sullo schermo.
Commento Finale
Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug è un film che gode di un ritmo molto più fluido, forsennato e colleziona al suo interno un gran numero di momenti spettacolari, esaltanti, ma soprattuto ben orchestrati. Il secondo capitolo della nuova trilogia traghetta lo spettatore in quello che sarà il gran finale e sebbene l’attesa sia ormai tanta, fan o no, è impossibile non rimanere colpiti o affascinati da quanto portato (ancora una volta) sullo schermo da Jackson, il quale dimostra di essere uno dei pochi registi al mondo capaci di saper tener le redini di (mega) produzioni di tale portata. Non rimane che godersi tutto ciò che Lo Hobbit ha da offrire nelle due ore e mezzo di durata e poiché questo capitolo convince appieno in (quasi) ogni inquadratura, è difficile pensare che dopo ben 5 film, il caro vecchio Peter Jackson possa cadere in fallo nel tirare le fila di una storia che grazie alla passione che in lui alberga per le storie di Tolkien, ha saputo imporsi e trovare una propria identità nel vasto, quanto immortale, panorama cinematografico!
Claudio Fedele
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