Recensione de Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate
“Peter Jackson conclude la sua avventura nella Terra di Mezzo tra potenza visiva e sincera commozione”
L’epica conclusione delle avventure di Bilbo Baggins, Thorin Scudodiquercia e la Compagnia di Nani. Dopo aver reclamato la loro patria dal drago Smaug, la compagnia ha involontariamente scatenato una forza letale nel mondo. Infuriato, Smaug abbatte la sua ira ardente e senza pietà alcuna su uomini inermi, donne e bambini di Pontelagolungo. Ossessionato soprattutto dal recupero del suo tesoro, Thorin sacrifica l’amicizia e l’onore e mentre i frenetici tentativi di Bilbo di farlo ragionare si accumulano finiscono per guidare lo Hobbit verso una scelta disperata e pericolosa. Ma ci sono anche pericoli maggori che incombono. Non visto, se non dal Mago Gandalf, il grande nemico Sauron ha mandato legioni di orchi in un attacco furtivo sulla Montagna Solitaria. Mentre l’oscurità converge sul conflitto in escalation, le razze di Nani, Elfi e Uomini devono decidere se unirsi o essere distrutte. Bilbo si ritrova così a lottare per la sua vita e quella dei suoi amici nell’epica Battaglia delle Cinque Armate mentre il futuro della Terra di Mezzo è in bilico.
Recensione
Scrivere de Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate non è una cosa semplice, vuoi per la materia trattata, vuoi per l’attesa che ha trascinato i fan durante questi due anni al tanto agognato finale, vuoi per la controparte cartacea scritta da quel che fu uno dei più importanti scrittori del Regno Unito del ‘900, ma sopratutto perché per la prima volta si prende coscienza della consapevolezza del fatto che vedremo la Terra di Mezzo un’ultima volta e questo, dunque, è in fin dei conti un vero e proprio Addio. Peter Jackson aveva conquistato tutti, anche i più schizzinosi, i puristi incalliti di Tolkien, con la sua prima trilogia (quella che viene definita “Maggiore” in contrapposizione all’attuale), era tornato nel 2003 in Nuova Zelanda con un ricco bottino, un po’ come Bilbo dopo le sue rocambolesche avventure: Undici Oscar, di cui tre nella propria teca personale tra i quali uno alla regia, i plausi globali della critica e la consacrazione sia individuale che del genere fantasy, un genere che sopratutto in Italia era stato a priori screditato o abbracciato da quella corrente fascista che ha dovuto poi ricredersi e arrendersi al fatto che The Lord of The Rings fosse tutto tranne che un inno a quei particolari ideali o tradizioni.
Dieci anni di assenza dalla Middle-Earth e poi The Hobbit, il libro scritto da John R.R. nel 1937, revisionato da questi negli anni successivi per renderlo sempre più coerente a quello che sarebbe stato all’unanimità il suo capolavoro, un racconto scritto prima della seconda guerra mondiale durante quel “Lungo Week-End” (come scrisse Graves con amaro umorismo) che cedette il passo alla Seconda Guerra Mondiale, una delle pagine più tristi della Storia recente a cui il professore di Oxford partecipò in prima persona. Il film ha avuto una gestazione travagliata, il cambio di regia, prima Del Toro, poi Jackson stesso, e tanti altri piccoli problemi che hanno portato Lo Hobbit ad essere quasi una maledizione che una manna dal cielo. Nel 2011 l’avvio delle tanto desiderate riprese. Eppure quella che doveva essere una pellicola divisa in due parti è diventata una nuova trilogia ed i dubbi si sono ancora una volta moltiplicati sul lavoro fatto dal regista neozelandese e dai suoi fedeli collaboratori.
Dopo Un Unxpected Journey nel 2012 e The Desolation of Smaug nel 2013 si arriva finalmente a The Battle of the Five Armies, ultimo film di questo nuovo trittico che come tale serve anche a far da ponte a La Compagnia dell’Anello.
La Battaglia delle Cinque Armate rappresenta senza ombra di dubbio un lavoro inedito e sotto certi aspetti innovativo che prende le distanze dal cinema a cui ci ha abituato Jackson e che sotto molti punti di vista
E’ proprio il linguaggio visivo, la maestosità, la bellezza e l’orrore delle battaglie (oltre ad un certo retrogusto grottesco) di quel che ci mostra il regista ad essere l’asso vincente, la carta che Jackson doveva giocare per salvare l’ultimo capitolo, per portare a casa un prodotto che assumesse da un lato i contorni di un qualcosa molto commerciale e si innalzasse puramente come forma di semplice intrattenimento e pura apparenza, ma al contempo mostrando solo nel profondo molte di quelle che sono le tematiche del suo Cinema ed alcune di quelle che vengono raccontante nel libro. Immagini di grande impatto e di rara bellezza vengono qui proposte senza mezzi termini, Peter Jackson spreme tutto il suo talento, si mette a nudo e confeziona così un prodotto che grazie al suo estro non riesce a fallire sul piano del linguaggio visivo. Teatralità e
Tutto ciò non rappresenta un male, ma un cambiamento, un qualcosa di diverso che sotto sotto sembra quasi necessario, per non ripetersi costantemente né per dare quell’effetto di deja vù. Eppure Peter Jackson dà il meglio di se proprio quando sceglie di unire tutti quegli elementi che hanno fatto grande il suo cinema, con una lente diversa stavolta però, ed allora “l’esodo” degli abitanti di Pontelagolungo diventa quasi un richiamo a quello degli abitanti di Edoras e le tante battaglie in Dale, pur mostrandosi diverse, anche grazie alla fotografia, in alcuni frangenti richiamano Minas Tirith, mentre la roccaforte di Gundabad è fortemente influenzata a livello di design da quella di Minas Morgul. Elementi, questi, che in fondo ci fanno sentire a casa, che strizzano l’occhio al passato, che ci ricordano chi sia dietro a tutto questo progetto e mettono per certi aspetti sicurezza laddove il film mostra comunque lacune e riserve visibili e costanti.
Perché come in una medaglia anche stavolta siamo costretti a guardare il lato peggiore, la parte scomoda delle due facce che in quest’occasione viene concretamente alla luce. In particolare è inutile non notare come il film scricchioli e mostri debolezze proprio nella sua natura di terzo capitolo a se stante, che qui non convince appieno, perché una volta arrivati ai bellissimi titoli di coda (curati da Alan Lee così come per Il Ritorno del Re) non si ha una sensazione di completezza, né (parafrasando) ci si sente “pienamente soddisfatti” colpa di una certa fretta che sarebbe stata compresa in altre circostanze. Quel che in principio doveva essere un film diviso in due parti adesso è costretto a scontare alcune lacune di sceneggiatura e sotto-trame non chiamate in causa durante l’epilogo, perché è proprio nella conclusione
Nel complesso tra i personaggi, come sempre, ci sono quelli che godono di maggior enfasi ed altri meno. Inutili invece i siparietti del tutto fuori luogo di Alfrid, fini a se stessi, e non particolarmente eccezionale la costruzione del personaggio di Dain, perfetto stereotipo del nano arrogante ed impacciato che non vede l’ora di suonarle ad orchi o elfi.
Il piccolo Bilbo Baggins (che porta il volto del sempre eccezionale Martin Freeman) è testimone del lento declino di Thorin, ma è anche protagonista di alcuni dei più eroici atti di coraggio, specchio del suo valore e della sua fedeltà e qui c’è uno dei più forti collegamenti alla parte scritta: Bilbo ripercorre un percorso non solo esteriore con questo viaggio, facendosi spettatore dell’orrore e della bellezza del mondo, ma anche e sopratutto interiore, che porta il piccolo Hobbit ad assumere quella maturità che fino ad allora non era riuscito a possedere e che in Casa Baggins, tra i suoi libri ed i suoi pranzi, aveva sempre procrastinato. I grandi atti di coraggio di Bilbo vanno messi in relazione alla sua persona, perché sebbene questi non sia un condottiero dimostra fedeltà, lealtà ed è nel contrastare Thorin, nell’avvertire i suoi amici dell’imminente battaglia, che Jackson ci sussurra ai nostri orecchi che sì, in guerra ci sono i possenti guerrieri armati di spade ed asce,
Per quel che riguarda la fedeltà ai libri va detto che così come in passato, anche adesso si ripercorrono all’incirca gli stessi avvenimenti, con qualche considerevole cambiamento, ma in fondo niente di rivo
C’è comunque John Tolkien, magari non sempre e forse anche meno delle altre volte, ma c’è e lo si scorge tra le righe, nel sotto testo, al di là dei duelli e degli effetti speciali e dato che bisogna comunque sapersi adattare è altrettanto vero che in questo film c’è anche Il Trono di Spade (sopratutto dal punto di vista antropologico), ci sono molti elementi che richiamano l’intrattenimento televisivo (in primis il fatto stesso che si tratti di un Cliffangher) e molte realtà videoludiche o cinematografiche con cui oggi è giusto confrontarsi e che hanno reso la trilogia precedente tanto affascinante, quale perfetto connubio di qualità e forma. Tematiche, sfumature, dialoghi e piccoli dettagli ci portano a scoprire alcuni elementi del Legendarium che però non sono serviti su un piatto d’argento e molte volte proposti sotto angolazioni diverse attraverso gli occhi di Jackson.
Commento Finale
La Trilogia de Lo Hobbit è arrivata così alla sua conclusione, dimostrandosi esattamente come il suo alter ego cartaceo: un qualcosa di assoluto valore ma pur sempre inferiore a quel che rimane un capolavoro cinematografico/letterario quale è Il Signore degli Anelli; ma seppur restando lontano dai fasti e dalla grandezza della prima trilogia questa ha saputo comunque raccogliersi un piccolo spazio e merita il rispetto dei fan o di un cinefilo
18-12-2014