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Quel razzista di Carlo Conti

Il fatto

Dopo l’ultimo episodio di Tale e quale show, andato in onda il 20 novembre su Rai 1, si sono scatenate le polemiche per come è stato interpretato il rapper Ghali. Tale e quale show è un programma condotto da Carlo Conti in cui dei personaggi famosi cercano di imitare nel modo più fedele possibile l’artista loro assegnato; a vincere è l’interpretazione più riuscita.

Ciò che ha fatto infuriare l’artista milanese di origini tunisine è stato il trucco usato per scurire il volto di Sergio Múñiz, il vip spagnolo che ha impersonato Ghali e il suo brano Good Times. “Non c’è bisogno di fare il blackface per imitare me o altri artisti” è il messaggio di protesta lanciato su Instagram da Ghali1.

Il travestimento che ha generato la polemica.

Cos’è il blackface?

Il blackface è una pratica teatrale nata negli Stati Uniti nell’Ottocento che consiste nel truccare attori bianchi in modo che assumano le sembianze stereotipate e caricaturali di una persona nera. Volto scuro e labbra grosse vanno di pari passo, in quel tipo di rappresentazione, ai comportamenti ritenuti propri della popolazione nera, come pigrizia e stupidità. Insomma, l’intento denigratorio e razzista è evidente2.

Il blackface è poi stato usato nel cinema per impiegare attori bianchi al posto di quelli afroamericani, e con i suoi stilemi è entrato a far parte dell’immaginario collettivo, cadendo però progressivamente in disuso con il progredire della consapevolezza sui diritti civili. Oggi, colorarsi la faccia di nero è considerata una pratica molto offensiva: ricorderete forse le scuse del premier canadese Trudeau per essersi in passato dipinto il viso in occasione di una festa3.

Un fotogramma dal celebre Tototruffa ’62.

Contestualizzare

E quindi Ghali fa bene a indignarsi? Truccarsi il viso per essere più simile a lui o ad altri artisti di colore è sempre un gesto razzista e sbagliato?

Consideriamo la vicenda nel suo contesto: stiamo parlando di un programma televisivo in cui l’obiettivo dei concorrenti è somigliare il più possibile a un determinato artista. Capelli, abbigliamento, movenze e trucco fanno quindi parte di un gioco in cui l’imitazione è tutt’altro che canzonatoria, anzi, è un modo di tributare all’artista un certo riconoscimento. E allora scurirsi il viso con un velo di trucco altro non è che uno dei mezzi per acuire la somiglianza.

A tal proposito si è espresso già in passato anche il conduttore della trasmissione Carlo Conti: “A Tale e quale facciamo tutti i grandi artisti. A noi non interessa il colore della pelle o la loro religione. Per noi sono celebrazioni di grandi artisti”.

Quel che Ghali e i paladini della correttezza, come il partito politico Potere al Popolo4 e la rivista Rolling Stone5, non sono riusciti a capire – o non hanno voluto – è che non c’era niente di discriminatorio e razzista da denunciare. Al contrario, chi qui mette in risalto le differenze di colore della pelle sono proprio loro. E poi parlare di blackface in questo caso è inadeguato, anche perché il blackface nasce per interpretare gli schiavi neri d’America, le cui radici sono nell’Africa nera, quella subsahariana6. E Ghali, cantante milanese di successo con genitori tunisini, non è né l’uno né l’altro.

Whitesplaining

Il blackface è solo uno dei termini di cui abbiamo sentito sempre più parlare negli ultimi tempi e che non hanno una traduzione italiana. Un altro di questi è whitesplaining, che in italiano indica l’atto di spiegare, compiuto da un uomo bianco, a qualcuno di colore o di una qualunque altra minoranza qualcosa che riguarda le ingiustizie che interessano il suo gruppo sociale7. Secondo alcuni, quello che starebbe facendo chi scrive. In soldoni, da quel che si apprende da alcuni commenti sui social, può esprimersi criticamente su di una certa questione solo chi è coinvolto in prima persona nel problema. Non sei nero? Non puoi dire a Ghali che se l’è presa inutilmente. È la stessa argomentazione che veniva utilizzata contro chi quest’estate metteva in dubbio i tratti più violenti del movimento Black Lives Matter. Ovvero un tentativo di impedire la discussione in partenza, evitare il confronto negando a priori la legittimità delle idee altrui a prescindere dal loro grado di ragionevolezza.

E quindi?

Cosa emerge da questa vicenda? In prima battuta la superficialità di pensiero da parte di chi ragiona secondo i dogmi sempre più stringenti del politicamente corretto e non accetta sfumature e contestualizzazioni. Chi rifiuta la complessità di pensiero con reazioni di pancia buone solo per i social network. In secondo luogo, la poca disponibilità al confronto che si riscontra su internet, anzi, forse la ricerca perenne dello scontro. Ne è un esempio la valanga di commenti negativi piovuti sulla pagina Instagram di Tale e quale show8Certamente, l’intransigenza del popolo di indignati che vuole vedere ovunque un’inaccettabile discriminazione non favorisce un confronto civile e genera invece rigetto in chi ha valori di tolleranza e uguaglianza e non li manifesta in modo così ottusamente estremista.

Oltre – e questo è molto più grave – a sprecare energie e spostare il dibattito su questioni microscopiche, quando i problemi concreti sono ben altri.

 

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