Lo sappiamo: l’affermazione ci lascia basiti e con sentimenti contrastanti, tra il divertito e lo sdegnato.
Per rispondere dobbiamo scendere dai nostri troni laurei, e precari, per tornare sulle sedie più piccole e scomode dei banchi di scuola. Abbiamo chiesto agli studenti livornesi della scuola secondaria cosa ne pensano e i dati ci hanno piacevolmente sorpreso: contrariamente alle malelingue sulle nuove generazioni, lo studio di Dante nelle scuole interessa ancora e non solo nei licei. Su un piccolo campione di più di 140 alunni è emerso che più del 70% ha ricevuto stimoli positivi ed interessi dall’opera mentre quasi il 90% la ritiene ancora attuale, nonostante forse da affrontare con approcci didattici diversi. È anche positivo il dato che rivela la conoscenza dell’opera in contesti extra-scolastici: quasi il 35% lo ha conosciuto per la prima volta in contesti familiari, più del 40% in contesti sociali variegati ed il 18% tramite gli odierni contesti di comunicazione.
Nel complesso quasi il 60% dei ragazzi conoscevano la Divina Commedia prima di studiarla a scuola ma, nonostante ciò, a livello nazionale Dante non è più così tanto conosciuto.
Queste lacune sono relative solamente all’impegno dei singoli o riguardano i metodi di inculturazione? La volontà di voler sperimentare nuovi approcci didattici è un capriccio o una reale esigenza?
Viene da chiedersi, forse in maniera provocatoria, se renderlo materia di studio oggi non comporti una sua penalizzazione: le difficoltà riscontrate dipendono dai programmi ministeriali o dai meri esecutori (per la metà precari, ahinoi)? Sta di fatto che il principale metodo di spiegazione della Divina Commedia si assesta sulla lettura e spiegazione dei canti, con relativa prosa, talvolta affiancandovi spunti o collegamenti interdisciplinari. Non stupisce neanche il dato che dà come preponderante la cantica dell’Inferno sulle altre due, spesso neanche mai affrontate perché non vi sono i tempi o le circostanze necessarie.
Alla base esiste il fatto che le difficoltà dell’insegnamento di questa materia non sono poche e risultano intrinseche all’opera stessa: la sua meravigliosa complessità risulta a tratti anche il motivo per cui alle volte la letteratura viene percepita come complicata e frustrante. Terzine, ritmica e musicalità sono solo alcuni dei tratti da tenere in considerazione, per non parlare poi delle nozioni preliminari sulla vita dell’autore e sul contesto in cui visse, diverse al punto che anche i cattolici praticanti di oggi possono riscontrare difficoltà. Se è poi vero che, come diceva De Filippo, “gli esami non finiscono mai!”, per un docente è sicuramente una prova continua trasmettere Dante soprattutto quando le platee presentano una soglia dell’attenzione sempre più bassa (per non parlare delle temibili DAD e DDI tanto sfruttate in questo periodo).
Una cosa certa è però il fatto di esser fortunati a poter studiare le firme della Grande Letteratura: i grandi esempi formano le generazioni e questo, nonostante le accuse più varie e decontestualizzanti, è sicuramente uno di questi.
Perchè leggiamo ancora Dante?
Verrebbe da pensare che l’inserimento dello studio di Dante e della Divina Commedia nell’offerta didattica sia da considerarsi come un mero retaggio, frutto di un inarrestabile attaccamento al passato di cui, spesso e volentieri, colpevolizziamo il nostro Paese e le singole Istituzioni. Insomma, Dante deve essere studiato (non letto!) perché così si fa e sempre si farà, e lungi dal Ministero sovvertire lo status quo.
Ebbene, la ragione non è affatto questa!
In primo luogo, è lo stesso Dante a rivelarci lo scopo della sua opera nella lettera a Cangrande Della Scala:
“Removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis”
“Allontanare gli uomini dalla condizione di miseria ed accompagnarli verso la felicità”
Con questo inciso, Dante cristallizza il motivo che lo ha indotto a scrivere la sua opera: farsi carico della condizione di infelicità in cui la società del suo tempo versava ed indicare la via all’intera umanità per salvarsi dal peccato e – in generale – dall’infelicità.
A identiche conclusioni si giunge anche analizzando la struttura dell’opera.
La Divina Commedia è il racconto del cammino che Dante compie in vece dell’intera umanità (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”) ma che, allegoricamente, rappresenta il viaggio dentro noi stessi. Secondo Dante, ognuno di noi, nel corso della propria vita, è destinato a perdersi perché assorbito dalla frenesia della quotidianità, dalla bramosia del desiderio e dalla ricerca della felicità esterna; questa continua lotta allontana l’Uomo da sé stesso, costringendolo ad agire per soddisfare gli istinti più primordiali (“Invidia, superbia ed avarizia son le tre faville c’hanno i cuori accesi”) e che lo rendono più simile ad una bestia piuttosto che ad un essere umano.
Un percorso, dunque, che inizia nell’oscurità degli Inferi: per liberarsi dai demoni che albergano nella nostra mente e nel nostro cuore, è imprescindibile conoscerli ed affrontarli. Ecco perché esistono i dannati: secondo Dante, l’Inferno è il luogo dove finiscono le persone che hanno scelto di vivere nel peccato e che ad esso hanno dedicato la loro intera esistenza.
Perché, secondo Dante, si cessa di essere umani nel momento in cui si smette di pensare: la ragione è, dunque, la chiave per la salvezza (terrena ed ultraterrena) nonché per la felicità.
Successivamente, Dante giunge al Purgatorio, regno intermedio che, anche in questo caso, è qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui si riferiva la Chiesa a partire dal 1274. La purgazione, infatti, è tappa prevista in ogni cammino: solo una volta divenuti puri, si può essere felici, e quindi “salir al ciel”.
Nel terzo Canto, il Paradiso, viene portato a compimento il percorso della conoscenza di sé: sapere chi siamo significa conoscere i nostri demoni interiori ed essere capace di esorcizzarli, valorizzando la purezza della propria anima, del proprio io, e solo così sentirsi davvero liberi.
La domanda quivi sorge spontanea: l’Umanità del Terzo Millennio è davvero così lontana da quella dantesca?
Assolutamente no. Anzi, la società per cui Dante si immola a salvatore, per molti (troppi!) versi assomiglia alla nostra. Da un lato, in particolare, gli ultimi accadimenti dovuti all’emergenza pandemica COVID -19 hanno ulteriormente rimarcato che abbiamo da tempo smarrito la diritta via e, dall’altro, siamo stati costretti a “rivedere” il nostro quotidiano trascorrendo molto tempo da soli e talvolta (purtroppo) anche in isolamento.
Ebbene, volendo attribuire un significato poetico ed allegorico alle trasformazioni in atto oggigiorno potremmo paragonare questo delicato momento, che coinvolge per l’appunto l’intera umanità, alla selva oscura dantesca, anche solamente per il profondo senso di smarrimento che con essa condivide. Come gli “occhi di bragia” di Caron, questi lunghi periodi di solitudine ci hanno inoltre fatto notare come la nostra società delle apparenze – quella del tanto auspicato 3.0 – altro non è che una costruzione fittizia, dove i desideri materiali vengono esauriti a discapito di una sempre maggiore retrocessione dell’identità e della consapevolezza del singolo.
Pertanto, oggi come non mai il messaggio contenuto nella Divina Commedia merita di essere divulgato e tramandato alle successive generazioni: in una società globalizzata, che produce in serie e standardizza la comunicazione, la consapevolezza di sé e l’autodeterminazione come esseri pensanti ed indipendenti è l’unica strada per essere liberi e – dunque – felici.
di Chiara Lo Re e Chiara Maccioni