Riporto testualmente i dolori del povero Naso, che evidentemente ha avuto l’estate rovinata dall’aprire Instagram e non potersi beare solamente del (bellissimo) culo della Ratactrl+v.
Culi, culi ovunque. Pare che la moda dell’estate (se ne è accorto anche il Corriere) sia quella di pubblicare scatti che mostrano il lato B, ovviamente impeccabile, sodo e alto, delle celebrities. E non solo, purtroppo… […]
Il problema, però, è che la moda di fotografarselo e sbatterlo in bella mostra sui social rischia di rovinare la poesia che solo un bel sedere può ispirare.
Perché un conto è Emily Ratajkowski, bella e sexy, un altro è la vicina di ombrellone, impiegata al catasto, che non ha mai messo piede in palestra né in uno studio di un chirurgo estetico.
E lo stesso vale per chi un bel culo, magari, ce l’ha ma non è una star di fama internazionale: mostrare il culo per qualche cuore su Instagram non farà di voi Kim Kardashian. Spiace, ma certe cose vanno dette.
Ringraziando il caro Naso (che tra l’altro ammiro molto) per la sentita lezione su estetica e morale, mi sono posta nuovamente quella domanda che non mi ha fatta chiudere occhio sotto l’ombrellone da Luglio in poi: perché così tanti uomini quest’anno hanno deciso di abbandonare calciomercato, preparazione per l’asta di fine Agosto, il caro e vecchio abbordaggio vacanziero, per portare avanti la nuova crociata del millennio: quella contro il culo.
Che poi, poverino, che vi avrà mai fatto.
Mi sono chiesta tante volte negli ultimi mesi dove risiedesse il fondamento che giustificasse le filippiche crude, offensive e sessiste (benché portate avanti da uomini e donne alla stessa maniera) contro una cosa futile, francamente poco interessante come le foto in costume sui social.
Ma qual miglior spunto, la futilità, per una riflessione ragionata.
Viviamo in un momento di totale sovraesposizione, di tutti, in ogni campo, in ogni senso; chi voglia ridurla alla sola sfera fisico-estetica banalizza sapendo di farlo. Chiunque tenta di raccogliere consenso come può, cercare l’approvazione sociale è un modo come un altro per limitare le proprie insicurezze, niente di così terribile in fondo, mi pare.
Eppure si tende – ipocritamente – a differenziare il trattamento riservato a chi si espone a seconda di come lo fa, ma soprattutto di chi lo fa: una donna sarà sempre giudicata con occhi più severi. Le sarà detto ciò che potrà o non potrà fare secondo una morale costruita da altrI, sarà derisa se tenterà di mostrare la mente, biasimata se metterà in mostra il corpo, come se il possedere un corpo fosse (ancora) qualcosa di cui doversi vergognare. (Ratajkowski/ come vicina impiegata al catasto.)
Si lascia al bigottismo (maschilista/clericale/borghese/femminista) la libera determinazione dei paradigmi morali, gli si lascia il potere di cancellare con un solo tasto le lotte che ci hanno illuse di aver conquistato una dignità di eguaglianza e libertà.
La verità è che la donna è libera, ma solo di essere come le si consente di essere. Né più né meno.
Di essere donna nel modo che è stato deciso per lei da altri, di vivere occupando il posto che qualcun altro le ha assegnato, secondo una dittatura funzionalista che amputa senza pietà i rami vivi, seccati dalla brutalità delle sue prescrizioni, emarginando chiunque se ne porti fuori, chiunque sia d’ostacolo ai buoni costumi e metta in pericolo la prosecuzione del sistema.
E benché sia diffusa l’idea che le lotte di rivendicazione (unite ad una presunta rinnovata coscienza sociale maschile) abbiano raggiunto risultati sufficienti, arrivando persino a parlare di eguaglianza realizzata, è chiara senza nemmeno sforzarsi troppo l’infinità di modi in cui ciò viene smentito.
Se è vero che le donne possono votare, hanno diritto all’istruzione, possono esercitare (almeno sulla carta) qualsiasi professione, se è vero che è stato superato il temuto gender pay gap, la forma peggiore di discriminazione di genere, più grave perché dissimulata, persiste ancora: quella intellettiva.
Non c’è niente da fare, non si può negare che vi siano strumenti di coercizione imponenti tanto quanto la legge, che la disapprovazione sociale possa avere sull’individuo lo stesso effetto che un divieto scritto.
Lo spirito moderno porta le donne a coprirsi, di nuovo. È il cosiddetto baquelache, il ritorno del bastone: dopo gli anni della rivoluzione, della libertà sessuale del nuovo ordine, è tornato oggi prepotentemente il bigottismo bourgeois a dirci che è giusto coprire, non mostrare, mostrare solo a chi è giusto mostrare secondo la morale comune.
La pseudo-verginità dei mores è dunque tornata un valore nel XXI secolo, contro ogni predizione. La donna deve tornare ad essere (anzi, a mostrarsi) casta e pura per adempiere al proprio dovere nei confronti della società: andare a occupare il proprio posto accanto a un uomo.
La donna è tornata a dover onorare lo stereotipo della bambolina borghese dal quale ha lottato per anni per allontanarsi, quella che poteva essere sedata con la concessione di una parvenza di egualità, che doveva essere istruita, ma non pensante. Studiata nella poesia, nell’arte, nella letteratura, quel giusto che serve per far gli occhi dolci ad un uomo.
Cosicché c’è chi pacatamente cammina, in fila indiana verso il posto numerato che dovrà occupare, seminando dietro di sé come molliche di pane ipocrisia e accondiscendenza.
Il patriarcato reprime l’essenza della femminilità nel modo più ignobile: tramite il denigrare, il plasmare le menti femminili a propria immagine, educate a ciò che è da lui ritenuto “giusto” e “morale”, educate ad assisterlo nella sua opera di emarginazione di genere. Alla donna alleata è concessa una messinscena di rispetto e ammirazione, che la lascia crogiolare nella stessa approvazione che accusa con disprezzo le altre di ricercare.
Nella società dell’istruzione, della mente aperta e dell’informazione, delle lotte per i diritti, le jeune filles si trascinano dietro una dote non voluta, quella borghese del dovere.
È un po’ fascista come dovere, se ci pensate.
Una donna ha il dovere di comportarsi adeguatamente, per cercare di irretire un marito con il quale dovrà poi sfornare la progenie.
Le demoiselles à marier sono inquiete, smaniose, si contengono, spesso, tengono a freno gli istinti, o negano di averne. Negano i fisiologici bisogni che sono state educate sin da piccole a reprimere, e a negare davanti all’uomo per non intimidirlo.
Sono abituate ad essere giudicate per l’apparenza (non del corpo, ma della mente), ad essere guardate dentro solo attraverso ciò che esternano fuori, da chi non ha il dovere di compiere lo sforzo interpretativo e perciò se ne astiene, da chi distingue un culo da un braccio, o da una gamba, solo in virtù della traslazione delle sue rappresentazioni della donna su di essa. E in base a questo vede malizia nel mostrare, e vergogna nella sensualità.
La buona società predica la libertà, l’autonomia espressiva, il diritto all’autodeterminazione. Tollera veli, creste, tatuaggi, vignette su Maometto. Scende in piazza (virtuale) per difendere la libertà altrui.
Poi però si indigna per un bikini. Parla di “cataloghi” di “vacche” “cagne”, “puttane”. Trascina sul banco degli imputati chi è colpevole, immeritevole di grazia, del suo stesso reato: il più profondo narcisismo. Ma non macchiato d’ipocrisia, almeno.
Questa è la conseguenza peggiore della fabbricazione dell’uguaglianza, che viene costruita e concessa, senza comprenderne la dignità.
Si misura l’accettabilità sociale di una donna dal suo abbigliamento, dal suo comportamento, si giudica la sua libertà come mancanza di decoro, l’emancipazione come sovversione alle regole civili. Si è così ciechi da confondere la libertà – anche sessuale, sì – di una donna con la promiscuità.
La libertà sta nella possibilità di scelta. Nel poter decidere di agire fuori dai limiti di una morale imposta come catena.
Nel forzare le barriere ideologiche e decidere da sé come utilizzare la propria libertà.
Si è finto, per anni, di accettare la disobbedienza femminile, di accettare le richieste di queste povere stolide, che non hanno arredato la gabbia dorata della “mistica della femminilità” in cui sono nate rinchiuse, ma hanno sempre picchiato sulle sbarre.
Di queste belle statuine che la società ha fatto sentire non più un “secondo sesso”, ma un sesso pari al primo. Che pure dovranno sempre far capo a un uomo, sostenere il suo giudizio, per essere realizzate.
Si è concessa loro libertà e indipendenza, ma solo nei limiti non valicabili del rispetto dell’ordine costituito. Il sistema può essere modellato, aggiustato, ma non rotto.
L’apocalisse si aprirebbe per l’uomo se la donna alzasse il capo, alterando lo stato di equilibrio che tiene il sistema in vita.
Eppure l’uomo si lamenta per lo scadimento dei costumi quando, a parità di contenuti, avrà sempre più attenzione per quello esteticamente più appetibile: se la bella Fiamingo più che per l’argento olimpico è stata lodata dai quotidiani per il “culo disegnato col compasso”, se le riviste dedicano interi articoli agli atleti più belli, ai pacchi più grossi, se una ginnasta è derisa per le sue forme più che giudicata per la sua prestazione, se quando una ministra parla la telecamera si sposta sulle cosce e la cellulite, come possiamo noi del popolo pensare di poter essere prese sul serio decidendo di mostrare noi stesse?
Un modo c’è. Smettere di ascoltare chi ci dice cosa possiamo e non possiamo mostrare di essere, secondo quel fariseismo benpensante che ha rovinato la vita di milioni di donne da ancor prima che queste potessero rendersene conto e reagire.
Abbiamo impiegato secoli di lotta per farci prendere sul serio, per vederci riconosciuti gli stessi diritti degli uomini. Ma cosa abbiamo ottenuto? Chi dice che mostrarci diminuisca il nostro valore?
Liberiamola ‘sta chiappa, donne. Usiamola come strumento popolare di rivolta contro l’ipocrita immobilismo borghese. Contro l’autoritarismo della morale.
Ribelliamoci al mito dell’eguaglianza realizzata. Guadagniamo la nostra emancipazione da sole, con l’auto-coscienza, poiché l’emancipazione concessa non può essere tale.
#bootyfree
*foto in evidenza – utilizzata fuori contesto – da Mujeres Libres