21 Novembre 2024


Ci sono tanti generi di musica: 456829_364218976933165_636826380_opop, rock, metal, progressive, punk, funk, jazz, reggae, per tutti i gusti insomma. La maggior parte delle persone si “accontenta” di eleggere uno di questi a suo genere preferito e, a loro dire, ogni genere è degno d’interesse. Quando, però, si va a toccare la musica classica… come dire… ci si ritrova davanti un muro. È un genere troppo complesso, le “canzoni” durano troppo, oppure è roba troppo vecchia, quando c’è qualcuno che canta non si capisce un tubo, insomma non interessa. Eppure fino a non tanti anni fa – si parla di anni ’20 e’30 – da parte del grande pubblico c’era comunque un buon livello d’interesse per il mondo della musica colta (sì,
colta, perché la musica classica è solo una delle correnti artistiche che si sono presentate nel tempo all’interno di essa). Allora perché oggi non interessa più? A parer mio, dobbiamo tornare indietro di esattamente cento anni e fare mente locale a cosa può essere successo d’interessante tra il 1914 ed il 1918. Le guerre fanno molte vittime. Non solo tra gli uomini.
Durante e dopo la Grande Guerra intellettuali, artisti, scrittori, musicisti si sono resi conto che era inutile continuare a fare finta di niente e cantare la bellezza di un mondo mutilato; da questa presa di coscienza nascono le tormentate pagine di Schönberg, Stravinskij, Casella, Petrassi, Šostakovič, Berg. Una musica nuova, aspra, che ben poco aveva a che spartire con gli allegri giri di valzer degli Strauss. Del sale su una ferita ancora aperta. Ma le persone dell’epoca volevano tutto fuorché ricordare gli avvenimenti di quegli anni, soprattutto i giovani, e sicuramente le Pagine di Guerra di Alfredo Casella non aiutavano. E poi dopo la guerra c’era qualcosa di meglio in circolazione, qualcosa che prima non s’era mai ascoltato: il jazz! Il jazz è il vero protagonista del breve interludio tra la fine della Grande Guerra e l’affermarsi dei regimi totalitaristici ed incarna perfettamente quello spirito gioioso e spensierato che ha dominato gli anni ’20 e parte degli anni ’30. Alcuni compositori, come Stravinskij, Šostakovič e (in parte) Ravel, hanno integrato le sonorità jazz nelle proprie composizioni e direi che la loro fama postuma ne ha giovato.
Ma cosa aveva questo jazz di tanto interessante?
Innanzitutto la novità, la freschezza del suono. I brani non erano così lunghi o così articolati come quelli della “vecchia musica”, e c’era sempre quel bel motivetto che ogni tanto compariva, a cui seguiva un po’ di improvvisazione e poi tornava. Insomma, sapevi di non poterti perdere in quella musica. Poi non richiedeva grandi orchestre, come potevi trovarne per opere di Verdi o Wagner o per quegli assurdi balletti di Stravinskij. Il jazz aveva dei complessini che potevi addirittura mettere nel tuo salotto: una batteria, un contrabbasso, un pianoforte (non necessariamente a coda), una tromba, un sassofono, magari un clarinetto e un violino. Questo era il massimo che si poteva pretendere da una jazz band.
Quindi c’è stato un passo indietro da tutt’e due le parti: non è vero che la musica classica si è chiusa in una torre d’avorio, ma è vero che non ha saputo interpretare le esigenze del proprio pubblico, così come il pubblico non si è sforzato minimamente di adattarsi al nuovo scenario prospettato dalla musica classica.
Da lì in poi il passo è stato breve. Da una parte alle persone bastava avere qualche allegro motivetto da ascoltare mentre sbrigava qualche faccenda, che non richiedesse troppa concentrazione; dall’altra alcuni musicisti hanno iniziato a prendersi troppo sul serio ed a scrivere obbrobri sempre più complicati che hanno dissuaso quel poco pubblico residuo dall’ascoltare altre ciofeche del genere. Il che ci porta ad oggi. Oggi per il pubblico il divario tra la musica “normale” e quella classica è quanto mai accentuato, anche perché manca proprio la più elementare educazione all’ascolto. Ciò significa che non solo le persone non cercano qualcosa di meglio da ascoltare in fatto di musica, ma che si è raggiunto un livello tale di ignoranza che non si è in grado di distinguere la buona musica da quella cattiva. Non penserete che tutta la musica classica sia bella, vero? Ci sono brani talmente brutti da far apparire (quasi) decenti i Tokio Hotel: dall’orribile Wellington Sieg di Beethoven ai raccapriccianti pezzi di Pierre Boulez (sono tutti orribili, scegliete quello che volete). È chiaro che uno senza la minima educazione musicale non è in grado di distinguere (specialmente se si tratta di musica moderna) tra buona e cattiva musica, o capire perché la buona musica viene considerata tale. Allo stesso modo è difficile non lasciarsi trarre in inganno dagli specchietti per le allodole, ovvero quei pittoreschi personaggi che si fanno passare per compositori di musica classica e poi fanno tutt’altro. Non dico che si debba diventare tutti dei musicologi specializzati nell’etnomusicologia giavanese, ma di certo non è una cattiva idea guardarsi attorno e, perché no, provare qualcosa di nuovo. Che magari non sia Allevi.

Luca Fialdini
luca.fialdini@uninfonews.it


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Luca Fialdini

Luca Fialdini, classe '93: studente di Giurisprudenza all'Università di Pisa e di pianoforte e composizione alla SCM di Massa e sì, se ve lo state chiedendo, sono una di quelle noiose persone che prende il the alle cinque del pomeriggio. Per "Uni Info News" mi occupo principalmente di critica musicale.

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