21 Novembre 2024

The Breaking Down

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Spiegare in modo esaustivo quello che è stato Pier Paolo Pasolini è un’impresa che spetta a chi già è sicuro, in pace con la propria coscienza, di non poter soddisfare i propri lettori. Impresa che, tuttavia, si avverte sempre più necessaria. A ciò si premetta che, il tentativo di perimetrare Pasolini nella dialettica anacronistica dell’Italia del secolo scorso – limitandone così di fatto il pensiero, nonché le possibilità di prospettiva ad ampio campo – risulta vano. La ricezione contemporanea della sua opera infatti, non solo si rivela sempre più attuale, ma si offre come vero e proprio stimolo, opportunità di reagire nel mondo, in quanto esseri antropologicamente implicati (volenti o nolenti) nelle questioni da esso affrontate.

Poeta, romanziere, critico letterario, saggista, regista (…) nato a Bologna il 5 marzo 1922, laurea in Lettere all’università della stessa città (tesi su Giovanni Pascoli); uomo contraddistinto da sensibilità spiccata, dalla forte carica morale, da affetto e critica efferata nei confronti della società, a oggi ravvisiamo in Pasolini una poetica che, a posteriori, ha indubbiamente segnato la storia della letteratura italiana. Lo stile, il linguaggio, e l’originalità tutta in ogni suo singolo atto culturale (la passione per la stesura dell’articolo di giornale è la medesima per il componimento in versi) restano esemplari testimonianze e moniti della ricerca intellettuale in generale, non solo letteraria.


Sono tanti i temi che stanno a cuore a questa poetica inesauribile ed estremamente cosciente del suo produrre; tant’è che Pasolini fu artista eclettico, versatile nella sua volontà di espressione, tanto da saper utilizzare più strumenti, più linguaggi artistici, così da riuscire a raggiungere l’altro sotto le più svariate forme.

In “Poesia in forma di Rosa” (1964), per esempio, troviamo lo sbocciare della forma che si offre nel mondo, e si richiude dopo averlo testato e conosciuto, simulando così il ciclo vitale del fiore; il mondo che è anche il nostro e che il poeta urge di restituirci. La comunicazione è protagonista quanto voce emarginata dagli altri: ce ne doliamo se ne siamo a conoscenza; non ci interessa perché siamo indifferenti al destino stesso della poesia.

Per cogliere, per conoscere Pasolini, dobbiamo confrontarci innanzitutto col Pasolini poeta (Pier Paolo inizia a scrivere all’età di 7 anni, dopo che la madre, di origini friulane, gli aveva dedicato dei versi propri). Nei suoi versi infatti – sin dalla sua raccolta d’esordio in dialetto friulano “Poesie a Casarsa”(1942) – troviamo le sue radici, i suoi temi allo stato più embrionale, il nucleo essenziale dell’uomo – come di per sé riesce a fare solo la poesia.

Poesia capace, inoltre, di riunire più tardi sotto lo stesso tetto due facce opposte della medaglia, quali quelle di Pasolini e di Ezra Pound, in un incontro avvenuto nel 1968 nella casa del poeta americano a Venezia. Tra i massimi pilastri del secolo scorso – esponente di movimenti letterari quali il Vorticismo e l’Imagismo, sostenitore del regime fascista, incarcerato poi a Pisa dai partigiani durante la liberazione, consegnato agli americani e, una volta accusato di alto tradimento, detenuto presso il manicomio criminale di St. Elizabeths di Washington per 13 anni -, Pound accolse Pasolini in tarda età, ormai reduce disilluso dalla guerra. L’incontro, filmato dalla RAI e presente in rete, testimonia ancora oggi come la poesia resista alla caduta delle ideologie, si ponga come principale fonte di umanità, e quindi di dialogo, di incontro, di scambio culturale, di diversità, in quanto parola che emerge dal lascito delle macerie della storia. Perchè infatti, Pasolini avrebbe dovuto negare che Pound fosse un gigante del Novecento solo perché fu uomo controverso dal punto di vista politico? Ebbene, d’altro canto questo sistema di valutazione pregiudiziale avviene anche col nostro, viste le sue arcinote posizioni fuori dagli schemi.

  

Qui il link dell’incontro tra i due poeti: incontro tra Pasolini ed Ezra Pound

Dopo il 1964 per Pasolini si apre un nuovo periodo di ricerca e sperimentazione, soprattutto delle arti visive: specie negli anni ‘70 – e alle spalle ha già dei film capitali per la sua formazione di regista, quali “Accattone” (1961) e “Mamma Roma” (1962) – il cinema viene portato a maturazione, se ne studiano gli aspetti semiologici, il linguaggio come categoria fedele alla realtà, capace di includere ogni cosa tramite la macchina da presa; di cogliere cioè, ciò che un letterato (affermava egli) non potrebbe vedere, poichè coglierebbe insufficientemente solo un estratto dell’inquadratura del proprio occhio umano facente presa sulla realtà. Questi aspetti si rifiniscono progressivamente durante la carriera del poeta bolognese. Mentre negli anni ‘60 la letteratura europea assiste alla crisi del piano formale e strutturale delle opere innescata dai movimenti neo-avanguardisti, Pasolini si dedica con altrettanta intensità alla poesia: è così che il racconto cinematografico e la scrittura in versi si intrecciano l’uno con l’altra influenzandosi reciprocamente.


Tuttavia, l’errore comune è quello di privilegiare l’una forma di espressione rispetto all’altra. Sicuramente la fruibilità che detiene il cinema nel nostro tempo (pensiamo a come ne usufruiamo mediante il predominio delle piattaforme a stampo multinazionale, nonché ai film della grande distribuzione) gioca un ruolo predominante nella società di massa, la quale massa lo consuma con criterio sistematico di immediatezza fornito dalla possibilità digitale; mentre la poesia è completamente agli antipodi di questa volontà consumistica, perché rigetta per sua stessa definizione quella di merce. Come affermò Pasolini stesso in una famosa intervista (qui riportata) : “Non possiamo parlare in realtà di poesia come di merce”. La poesia resterà inconsumata”. Il nostro rapporto con il cinema, nei nostri intenti e in quanto consumatori, è cambiato radicalmente. Quello con la poesia è rimasto più o meno lo stesso: pochi la leggono.

Ma in Pasolini questa mediazione di esclusione non regge. Non è mai un guardare un film per distrarsi, passare del tempo; così come mai la lettura, in quanto azione culturale in sé, non è mai distrazione. Si tratta di un cinema sui generis, che sfida i suoi spettatori mettendoli dinanzi alla realtà per quella che è, senza sconti, inducendoli alla riflessione senza mezzi termini, e senza mai mancare di fede, ovvero illudendo, alla ripresa dei temi della tradizione classica e medievale in dialogo con la riproposizione dei medesimi nella società contemporanea (esemplari per questo discorso sono i film “Edipo Re” (1967), “Medea” (1970) e la cosiddetta “Trilogia della Vita” (1971-’74)).

  

Persiste, comunque, quella specie di autosufficienza del pubblico, di spettatori e di non-lettori (la maggior parte) i quali in verità non interagiscono a pieno con Pasolini, e non ne comprendono l’opera come vero e proprio unicum, come dovrebbe essere fatto. Bisognerebbe quindi considerare tutto l’intero “arcipelago-Pasolini” senza escluderne la letteratura in quanto mare fondamentale, e le isole da esso bagnate come punti terrestri di emersione.

Alla base di questo nuovo periodo, c’è la polemica col Gruppo ‘63, un gruppo di intellettuali dal calibro di Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Nanni Balestrini, Giorgio Manganelli e altri, intenti ad aprire la poesia verso nuove forme sperimentali e nuovi artifici tecnico-linguistici che lasciarono Pasolini sospetto, tanto da divenirne uno dei più audaci contestatori. Questo testimonia il rigore e la postura con cui Pasolini si pone nei confronti della cultura e della storia: si deve essere aperti alle novità, ma mai dimenticarsi delle proprie origini, delle proprie radici, le quali vanno necessariamente tutelate. Questo discorso vale, ancora una volta, in relazione a più livelli: ambientale, geografico, identitario, linguistico, sociale ecc.

Una figura, quella di Pasolini, soggetta comunque a pregiudizi, rischi interpretativi, dualismi sterili ora culturali ora politici. Troppo spesso esibito con sicurezza e comodità, come scudo protettivo sul lato politico (senza sapere per esempio che nonostante fosse apertamente un indipendente di sinistra, mise in discussione l’aborto e il divorzio) senza conoscerne realmente e in profondità le contraddizioni dell’uomo stesso; o riferendosi alla sua produzione di regista, senza averne mai letto una riga. A proposito è bene citare dei versi che scrisse il suo caro amico e poeta Giorgio Caproni dopo il suo assassinio, avvenuto all’idroscalo di Ostia nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975: “Non voglio, per farmi bello, / fregiarmi della tua morte / come d’un fiore all’occhiello”.

Rischi e divisioni che lo isolarono, fino a farlo sentire un solo, un ultimo rimasto (come del resto i veri poeti). Già allora, la politica diventava sempre più una politica con la “p” minuscola, non più capace (neanche quella della sinistra rivoluzionaria) di offrire una convergenza tra gli esponenti della cultura e quelli dell’ideologia; di interpretare i fenomeni e le trasformazioni di cui invece Pasolini era ben cosciente.

Questa lucidità si estrinseca soprattutto in articoli di giornale scritti da Pasolini stesso per il Corriere della Sera negli anni ‘70, raccolti per Garzanti in “Scritti Corsari” (1975) e per Einaudi nelle “Lettere Luterane” (uscite postume nel 1976). Articoli molto discussi e dibattuti, in cui Pasolini parla della cosiddetta “mutazione antropologica”. Infatti, l’Italia sarebbe passata da una società di tipo piccolo-borghese, repressiva, inibitoria, incentrata sui valori di sacrificio, religione, dovere, a una società laica e fondata sullo spettacolo, edonistica, fatta di liberalizzazione sessuale (ovviamente farlocca, perché invece di liberare omologa gli individui allentandone i legami, rendendoli sempre più inautentici e degradanti), consumistica, dopo le svolte “emancipatorie” del boom economico e delle proteste del ‘68. ‘68 che agli occhi di Pasolini altro non era che una falsa rivoluzione, poiché nato e consumatosi all’interno della borghesia postbellica, portatrice di falsi idoli e falsi valori che ancora oggi ci si impongono, includendoci o escludendoci. Di un’estetica del consumo disinibita quanto ridicola che si erge come manifesto di una diversità anch’essa solo apparente.

             

Basterebbe questo per comprendere la portata di un pensiero che, in vece del suo allontanamento da ciò che critica, ricava la sua forza…e la sua solitudine. Il senso di non corrispondenza col mondo si riflette sia nella sfera intellettuale, sia nella sfera fisica. Da questo, emerge l’importanza del corpo come motivo di compagnia, come segno significante di presenza che attenua (o meglio, condivide) il senso di solitudine. Il corpo, in quanto elemento identitario dell’essere umano in sé. Esso trascina assieme alla propria definizione la categoria di esperienza. Su di esso si ritrovano i segni, le cicatrici del nostro passato e del nostro presente; esso è la prima vittima delle esperienze cui ci sottoponiamo. La scissione che avviene tra la mente e il corpo è il frutto di sovrastrutture che l’uomo non sa più interpretare, e questa si è intensificata sempre di più nella condizione contemporanea. Questa scissione in passato non era possibile, perché le masse, di per sé antidemocratiche, avevano comunque dei punti di riferimento, dei capisaldi cui attenersi. Venuti meno questi capisaldi, gli esseri umani fanno esperienza di se stessi subendo le conseguenze di quell’esperienza solo dopo averla compiuta.

L’ultima forma di abuso del potere politico sul corpo, per Pasolini è rintracciabile nell’ideologia fascista, come dimostrato nel suo ultimo film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” (1975), la quale esercita liberamente la propria volontà tramite anarchia illimitata sui corpi dei giovani appartenenti alle classi subalterne. Oggi, quello che accade è analogo, ma sono le classi stesse a dare il consenso dell’abuso della propria identità all’esperienza che, una volta consumata, lacera l’individuo al proprio interno. E Pasolini qui si rivolge soprattutto ai giovani, per cui, maturato il proprio pensiero, non può che detestare apertamente e contestarne la condotta, tanto capricciosa e materiale, quanto acefala e coscientemente subdola.

La critica viene esercitata con intenti ora provocatori ora pedagogici per mettere in guardia dai pericoli, dai rischi che corriamo prestando il nostro consenso: si pensi ai legami sessuali che instaurano gli adolescenti e gli uomini medi, ai fenomeni del revenge-porn, degli stupri collettivi su di un singolo individuo, allo svuotamento di valore dell’altro in quanto corpo-oggetto senza contestazione, senza capacità di giudizio, senza neanche più opposizione atomico-democritea, ma soltanto come materia da possedere, su cui sfogarsi e in cui svuotarsi. Tali dinamiche non creano significati e rendono gli individui interscambiabili, e rispondono alle pulsioni irrazionali che li rendono fondamentalmente vuoti e privi di passione. Ma questa ormai è la normalità, sono storie di ordinaria quotidianità…non ci si riflette più. Diventano storie di cronaca solo quando simili rapporti sfociano nella tragedia e imperversano nei telegiornali e nei “dibattiti” televisivi dei nostri giorni.

L’omogeneità di queste riflessioni originali del pensiero di Pasolini, è uno spartiacque sulla scena della totale presa di parola democraticizzata nei tempi dei social network, in cui la verità si relativizza ulteriormente, dato che tutti possono scrivere di tutto e il contrario di tutto, manifestando la propria opinione gratuitamente, senza timori. Oggi infatti parliamo di “rete” nel senso più ampio del termine: in questa, i giovani tanto interconnessi quanto paradossalmente oppressi dalla solitudine interiore. Si pensi ai corpi che vediamo ogni giorno sui nostri schermi, nudi o meno; alle foto che postiamo sui social network, a come la rivoluzione tecnologica e digitale influenza le nostre personalità, le nostre emozioni, le nostre abitudini, i nostri pensieri in modo permanente. Al tempo di Pasolini questa rete non c’era, o era, da lui solo, intuibile.

Per il resto, oggi il vero cinema è la pubblicità. Siamo persuasi dalla televisione: gli effetti speciali coincidono brillantemente con le trame narrative del consumo; dalle auto alle merendine, ciò che osserviamo e ascoltiamo sono vere e proprie storie, dialoghi, narrazioni che incitano la psicologia dell’individuo, spinto sempre più verso l’afflato al consumo, alla ricchezza. Nella televisione, si definiscono anche i canoni del politically correct, per cui le pubblicità esercitano una falsa tolleranza, includendo individui fuori forma e con caratteristiche inusuali, mentre i reality show, i talent, le trasmissioni ad alte visualizzazioni, sfatano brutalmente questo falso progressismo, generando un’ipocrisia che si riflette nelle facoltà interpretative di ogni singolo.

Dunque Pasolini, operando nella tensione prodotta dal suo stesso pensiero, cercò sempre un equilibrio tra queste estremità, all’interno del brusco cambiamento storico degli ultimi (diremmo 100) 50 anni; all’apice della mutazione permanente della modernità, comprendeva che i valori tradizionali dell’Italia della prima metà del ‘900 sarebbero dovuti restare, non più come concetti strumentalizzati dall’autorità politica per esercitare il proprio potere per reprimere e controllare la società, bensì per cogliere il senso di misura tra il sacro e il profano, tra i Vangeli e la pornografia, tra le “Ceneri di Gramsci” (1957) e la dissoluzione della sinistra che più non sapeva guardare a quei suoi riferimenti culturali da cui nasceva in nome di estremismi esclusivi.

Quello che Pasolini ci lascia, è un’eredità sconfinata del sapere umano, che va a integrarsi con quella parte di patrimonio umanistico della cultura, in quanto uomo dedito al riscatto dell’umanità stessa rispetto alla condizione in cui essa si sta avvicinando. Ha fatto tutto questo con grande sensibilità, con grande entusiasmo, angoscia, diversità, tensione, bontà, rabbia, passione. Con tutto ciò con cui un poeta resiste nella solitudine in cui vive e muore.

(…) Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più.

(da “Poesia in forma di Rosa”, sez. “Poesie mondane”, 10 giugno 1962)

 

Leonardo Bachini

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Leonardo Bachini

Leonardo Bachini è nato a Livorno il 03/05/1997. Dopo aver conseguito il diploma presso l’Itis Galileo Galilei di Livorno nel 2017, si è iscritto al Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica presso la facoltà di Lettere Moderne di Pisa nell’anno 2017/2018. Nel 2016 è stato premiato speciale al concorso di poesia “G.Bolognesi” (X edizione). Ha lavorato presso il Centro Studi Nonviolenza di Livorno dopo selezione dal bando per il Servizio Civile, in cui ha svolto ruoli variabili come archivista, bibliotecario, segretario d’ufficio. Borsista a Poesiaeuropa nell’anno 2021. Vincitore premio Ossi di Seppia 2022 (Arma di Taggia).

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