Uno spettacolo nello spettacolo. Fresco, originale, trascinante. Scandito dal ritmo e dal tempo della musica e delle battute dell’immortale Chet Baker. Un flusso di melodie ed emozioni, che riusciva a regalare il trombettista e cantante proveniente dall’Oklahoma e che ci viene a nostra volta donato e testimoniato da due interpretazioni parallele, che poi si toccano ma che mai tra loro urtano.
E’ il “Tempo di Chet”, la versione di Chet Baker interpretato sia come personaggio, nei cui panni vi è l’attore Alessandro Averone, sia come musicista, impersonato da Paolo Fresu, autore delle musiche originali. E’ il risultato di un’operazione rischiosa ma suggestiva, dal testo di Leo Muscato e Laura Perini. Uno spettacolo nello spettacolo, appunto. Una doppia finestra sul palcoscenico, dove sprizzano musica e teatro. Scrittura drammaturgica e partitura musicale si fondono e si sovrappongono in una fitta rete di storie, intrecci, successi e dolori che visse uno dei miti musicali più geniali ma anche più controversi e discussi del novecento, in un flusso organico di parole, immagini e musica che rievocano lo stile lirico e intimista di questo jazzista maledetto e leggendario.
Sin da quando si apre il sipario, a suon di note e grazie alla splendida scenografia (curata da Andrea Belli), sembra di fare un salto nel tempo. E’ come se ci ritrovassimo lì, tra i tavoli di un jazz club, qualche bicchiere inumidito dall’alcool, luci soffuse e pareti opache, pronti ad ascoltare le vibrazioni, i silenzi e le emozioni di uomo che pare essersi rassegnato al destino. Se ne sta con la testa riversa sul bancone. Si sveglia, si guarda attorno: sembra cercare qualcosa, o solo accertarsi che il vuoto sia tutto lì, rassicurante, definitivo. Canta: la sua voce ha un’intensità dolorosa, spezzata da pause incomprensibili.
E così iniziano i ricordi, che talvolta sembrano più sogni: riaffiorano persone e situazioni che hanno avuto a che fare con lui, che lo hanno reso tanto forte quanto fragile. Hanno tutti qualcosa da recriminare, da suggerire, da ricordare. Ci sono i genitori, i suoi figli, i suoi amici musicisti, i suoi rivali musicisti, le donne della sua vita, i detrattori, i pusher, i critici musicali, i fans. Il tutto a partire da quando suo padre gli regalò la sua prima tromba da bambino fino al momento prima di volare giù dalla finestra di un albergo di Amsterdam.
“Ogni apparizione apre il sipario su una fase della vita dell’artista” – commenta il regista – “Si delinea così la figura del grande trombettista, che fra sogni, incertezze, eccessi ha segnato una delle pagine più importanti della storia della musica.”
“Se la sua vita e la sua morte sono ancora oggi avvolte nel mistero” – riflette Fresu – “la sua musica è straordinariamente limpida, logica e trasparente, forse una delle più razionali e architettonicamente perfette della storia del jazz“
Il mescolare teatro e musica risulta così un’operazione interessante e dalla forza evocativa e comunicativa enorme, grazie a un lavoro mirato non a una rappresentazione vana ed estetica di questo personaggio e della sua musica, ma verso un’esplorazione lucida della sua personalità, tra le vette che è riuscito a toccare con la sua arte e i tormenti con cui ha dovuto combattere. La scenografia rende il tutto ancora più interessante e suggestivo. Situato appena più in alto rispetto al bar, vi è uno spazio dove suonano splendidamente Paolo Fresu, alla tromba e flicorno, Dino Rubino al piano e Marco Badoscia al contrabbasso. E’ grazie a questa trovata scenica che note e parole interagiscono alla perfezione: il risultato è un intreccio denso, equilibrato, accattivante e vincente, in uno spettacolo che riesce a entusiasmare, a commuovere e a stupire.
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