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Organicismo sociale: dal corpo di Purusha al pericolo della retorica organicista oggi

«Ma mentre [le membra] intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono loro stesse, e il corpo intero giunse al deperimento estremo»

(Apologo di Menenio Agrippa)

Analisi e genealogia dell’organicismo sociale dalla mitologia religiosa alla filosofia moderna, tra vantaggi e pericoli della concezione organicista oggi.


Secondo l’antico mito induista della creazione, il mondo si generò dall’eroico sacrificio di Purusha (l’“Essere umano maschio”, in sanscrito), il cui corpo rappresenta contemporaneamente l’unità e la moltitudine. Dalle membra di questo Uomo Cosmico si originarono i vari elementi del creato: la terra scaturì dalla carne, il sudore si trasformò nell’acqua dei mari, gli alberi crebbero dai capelli e la fronte si tramutò nella volta celeste. Tuttavia, anche la comunità umana nacque dal corpo dell’Uomo Cosmico, e nella raccolta sacra dei versetti Veda si legge che «La sua bocca diventò il Brahmana [casta sacerdotale], le sue braccia si trasformarono nello Ksatriya [casta militare e nobiliare], le sue cosce nel Vaisya [casta mercantile degli artigiani] e dai piedi nacque lo Sudra [casta dei servitori]». La società induista è sempre stata caratterizzata da profonde divisioni sociali, e ancora oggi uno dei principali problemi dell’India risulta essere la discriminazione tra caste, in particolare l’indegna condizioni dei Dalit, gli intoccabili, la non-casta degli impuri ridotti alla vita di strada. Non è difficile immaginare quanto il mito cosmogonico di Parusha per millenni abbia contribuito a giustificare la profonda divisione sociale interna alla società, ma la questione induista non è altro che uno dei molti esempi in cui il corpus mitologico di una civiltà comunica una concezione biologica della società, da cui consegue una legittimazione di sistemi sociali divisi in caste o dello schiavismo. In sociologia, per intendere le dottrine che concepiscono la società come un organismo biologico, si parla di organicismo.

Nel Timeo, Platone teorizzava l’organizzazione politica più auspicabile come una collaborazione tra tre gruppi sociali, ognuno dei quali avrebbe presentato uno sviluppo maggiore delle parti dell’animo umano: i lavoratori sarebbero dovuti essere caratterizzati dalla temperanza grazie alla parte corruttibile dell’anima; i guerrieri sarebbero stati forti e coraggiosi a causa della parte irascibile dell’anima; infine, i governanti dovrebbero essere filosofi la cui saggezza è dovuta allo sviluppo della parte razionale dell’animo. In questa teoria ritroviamo l’immagine del corpo politico riconducibile all’organismo umano, in questo caso, all’anima. 

Più volte nella storia si è ricorsi ad allegorie organiciste, come l’apologo di Menenio Agrippa per pacificare la secessione dell’Aventino nel 494 a.C. In quell’occasione, infatti, il console ricorse alla metafora della collaborazione tra i vari organi biologici per spiegare ai plebei rivoltosi il funzionamento della Res Publica: «Ma mentre [le altre membra] intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse al deperimento estremo. Così, senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute». Il pensiero organicista per millenni è sopravvissuto nella memoria collettiva dei popoli e numerose volte si ripresenta in forme simili.

Il processo di civilizzazione e accentramento del potere porta progressivamente a rappresentare un singolo uomo come il garante dell’ordine sociale, la cui autorità è spesso legittimata direttamente dall’organicità della società. Così, nelle forme politiche più simili allo Stato moderno, il corpo del monarca finisce per diventare il corpo politico, e, come si racconta nel ciclo arturiano del Re Pescatore, l’eventuale malessere del regnante si trasforma in devastazione e desertificazione del suo regno. La disfunzione fisiologica del re, che porta alla morte della Nazione (“waste land”), presumibilmente si ripercuote anche sulla popolazione che, com’è verosimile pensare, resterà colpita dalle disgrazie e dai cataclismi della terra guasta.

L’immagine del Leviatano di Hobbes, dove il corpo titanico dell’umanità è vincolato dal patto sociale della civiltà, è il simbolo per eccellenza dell’organicismo sociale.

La rappresentazione del potere statuale incarnato nel corpo simbolico del regnante è cara alla tradizione monarchica, e anche nella filosofia moderna troviamo teorie riconducibili all’organicismo, come per esempio il Leviatano di Hobbes. 

Sicuramente la divisione del lavoro sociale è un elemento imprescindibile da ogni comunità umana, e l’essere umano è orientato all’interazione, che sia solidaristica o ostile, con i suoi simili. Con l’esigenza di gestire spazi di convivenza pubblica, socialmente pacifici, la produzione delle regole e delle norme morali va di pari passo con la specializzazione dei ruoli sociali. E’ indiscutibile che spesso l’umanità tragga risultati migliori collaborando e strutturando il lavoro, e che la convivenza pacifica sia uno dei requisiti fondamentali per ogni società conviviale.

Già il tedesco Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), prima di Hegel, aveva formulato riflessioni sull’idealismo romantico riconducibili al pensiero dell’organicismo, in particolare sul rapporto tra individuo e società, ribaltando completamente la filosofia liberale del giusnaturalismo. Il filosofo tedesco sviluppò un pensiero strutturato attorno allo Stato forte e sufficiente, ipotizzando politiche simili a quelle che sarebbero state l’autarchia e all’economia pianificata nei regimi novecenteschi.

Anche nella più recente tradizione post-fascista di Julius Evola (1898-1974) rintracciamo, nel nome di un ritorno ai valori tradizionali e spirituali dell’aristocrazia, una visione della società di matrice organicista. «Uno Stato è organico quando esso ignora la scissione e l’autonomizzazione del particolare e, in virtù di un sistema di partecipazioni gerarchiche, ogni parte nella sua relativa autonomia ha una funzionalità ed un’intima connessione col tutto. […] Tutto ciò sia stato talmente dimenticato, benché quasi fino ad ieri, prima dell’avvento del liberalismo, dell’individualismo e della rivoluzione in Europa, fossero sussistiti sistemi politici riflettenti ancora sensibilmente aspetti dell’idea organica, sistema che agli occhi dei più apparivano affatto normali e legittimi» scriveva Evola nel quarto capitolo di Gli Uomini E Le Rovine.

Tuttavia, troppe volte nella storia la retorica organicista è stata un pretesto per nascondere le contraddizioni intrinseche alla società, e per continuare a riprodurre certi soprusi legittimati dalla necessità di far funzionare l’umanità nel complesso, pena: il deteriorarsi di tutto l’organismo sociale. Nei regimi totalitari novecenteschi la questione della salute del corpo politico nazionale ha dato vita a vere e proprie violazioni di ogni libertà individuale. La parola salute non è affatto casuale se si pensa ad esempio all’allegoria sulla cura medica della società e sulla rimozione delle parti compromettenti considerate malattia sociale, se non addirittura tumorali, dell’organismo sociale.

Queste riflessioni rimandano immediatamente a immagini terribili, e non a caso diversi comitati, ministeri e milizie responsabili di repressioni disumane portavano nel proprio nome riferimenti al campo semantico della medicina e della salute pubblica. I sistemi di detenzione e reclusione hanno spesso commesso grande confusione, anche volontariamente, sul confine tra devianza e malattia, costruendo edifici penitenziari indiscriminatamente dedicati a criminali e psicotici, o presunti tali. Gli studi pseudoscientifici di Cesare Lombroso (1835-1909) sono forse il caso più emblematico della pericolosissima dialettica tra devianza e psicosi: secondo lo studioso veronese, fondatore dell’antropologia criminale, la fisicità dell’individuo, come la conformazione del cranio, è la principale causa della criminalità e dei comportamenti antisociali. Queste teorie si prestano a interpretazioni organiciste, secondo le quali le patologie sociali hanno un’origine genetica e biologica, e derivano da tendenze innate di veri e propri criminali per nascita, da rimuovere dalla società per garantirne il funzionamento. 

Nel grande disordine della post-modernità, dove le ricerche tecniche nel campo medico e genetico stanno progredendo a enorme velocità, dove si parla sempre più di concetti come eugenetica (e delle relative implicazioni bioetiche), dove si sente ancora fortemente la traccia post-industrialista dell’utilità produttiva come principale affermazione dell’uomo, l’ombra dell’organicismo rischia di presentarsi ancora in forme ignote, magari falsamente liberali. Il pericolo di attribuire giudizi di valore sulla soggettività di individui “non funzionali” (come i disabili o persone giudicate psicotiche) è ancora presente. A noi e ai posteri non resta quindi che tenere gli occhi aperti e tentare di costruire abilmente l’equilibrio, tanto precario quanto necessariamente perseguibile, tra individualismo filosofico e organicismo, ma soprattutto dobbiamo vegliare continuamente sulla questione delle libertà individuali, specialmente in un mondo dove la parola libertà è continuamente inflazionata e usata a sproposito.

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