Il 14 e il 15 novembre il Teatro Goldoni di Livorno è stato lieto di aprire la sua stagione di prosa con un caposaldo della letteratura del Novecento firmato Umberto Eco “Il nome della rosa”, nella sua prima trasposizione teatrale attraverso il lavoro drammaturgico di Stefano Massini ( autore recentemente della “Lehman Trilogy” di Luca Ronconi) e la regia di Leo Muscato.
Il confronto con romanzo e film era il rischio maggiore, anche se – come ammette Muscato – “la struttura stessa del romanzo è di forte matrice teatrale. Vi è un prologo, una scansione temporale in sette giorni, e la suddivisione di ogni singola giornata in otto capitoli, che corrispondono alle ore liturgiche del convento”. Ogni capitolo è introdotto da un sottotitolo, che nel caso dello spettacolo assume le vesti del monologo tenuto dal frate ormai anziano che racconta, di modo tale che il lettore-spettatore già si orienti su ciò che andrà ad accadere.
L’obiettivo di Muscato era proprio quello di rimuovere ogni immaginario precostruito dal romanzo di Eco e dallo splendido adattamento cinematografico di Jean Jacques Annaud: per fare ciò ci si è affidati alla scelta scenica di un uso massiccio, ma assolutamente suggestivo, di videoproiezioni, che hanno la capacità di evocare ambienti e atmosfere quasi fiabesche, oniriche; il tutto amalgamato con una mirabolante cornice architettonica, in un susseguirsi di transizioni spaziali che scandiscono la vicenda.
Adso da Melk, il vecchio frate benedettino intento a ricordare gli avvenimenti di cui è stato testimone in gioventù, diventa in questo spettacolo un io narrante sempre presente in scena, in stretta relazione con i fatti che lui stesso racconta, accaduti molti anni prima in un’abbazia dell’Italia settentrionale. Sotto i suoi (e i nostri) occhi si materializza un se stesso giovane, poco più che adolescente, intento a seguire gli insegnamenti di un dotto frate francescano, in passato inquisitore: Guglielmo da Baskerville. Il ricordo del vecchio Adso diventa così la struttura portante dell’intero impianto scenico, visto come “una scatola magica in continua trasformazione che possa evocare i diversi luoghi dell’azione: dalla biblioteca alla cappella, dalla cella alla cucina…”.
Stefano è riuscito magistralmente a condensare in 2 ore di spettacolo il pathos, l’azione e la morale che sono alla base del nome della rosa, in una sinstesi perfetta in cui lo spettatore si sente partecipe alla risoluzione del caso, grazie ai ragionamenti che Guglielmo da Bakerville condivide con il pubblico. In definitiva uno spettacolo davvero ben progettato e coinvolgente che consigliamo a tutti di andare a vedere.