“Perché gli americani non mandano i Marines in Siria?” mi chiede un amico di fronte ad una tazza di caffè, in una assolata mattina di marzo “perché ce ne stiamo qui a guardare il ‘nazismo del XXI’ sec, senza far niente?”
In queste domande legittime si condensa gran parte del dibattito internazionale in corso e le risposte, a volte, sono difficili da accettare poiché implicano ammettere i gravi errori commessi dall’ Occidente in politica estera, almeno dall’11 settembre in poi.
Da quando Daesh – “il Califfato“, nome più appropriato per indicare l’ISIS – ha cominciato la sua conquista, più delle cronache internazionali, che di territori in medio oriente, tra il 2011 e il 2013, si è periodicamente riproposto il problema di come l’Occidente – generica espressione per indicare piu precisamente gli Stati Uniti e i loro alleati – debba rispondere alla sempre più grave minaccia di un neonato stato fondamentalista islamico, tra Siria e Iraq, che occupa ormai un’area vasta quasi come la Gran Bretagna.
L’Alleanza a guida USA, che tutt’ora fronteggia Daesh, appare come un’eterogenea composizione di nazioni, con intenti e politiche molto, forse troppo, diverse tra di loro. Numerosi paesi contribuiscono effettuando bombardamenti aerei o, come l’Italia, fornendo supporto logistico alle forze che davvero combattono il Califfato. Queste, p
Gli usa però, autori di centinaia di incursioni aeree, rifiutano l’invio di truppe di terra, impedendo una più rapida risoluzione del conflitto.In breve quindi, per quali ragioni gli Stati Uniti e i loro alleati, autori di molteplici missioni in medio oriente dal 2001 in poi, che hanno coinvolto anche forze di terra, stavolta si limitano a fornire supporto aereo ai peshmerga?
Come mai per sradicare Al Qaeda e il poverissimo regime talebano dall’ Afghanistan, abbiamo combattuto sul terreno per quattordici anni impegnando decine di migliaia di uomini ed ora siamo restii a combattere, con la stessa fermezza, la più ricca e organizzata formazione terroristica delle storia?
I motivi per i quali il Presidente degli Stati Uniti Obama non si imbarca in una impresa del genere, sono molti. Alcuni di questi sono di raffinata maestria in politica estera e di attento pragmatismo:
- La prima serie di ragioni è di natura squisitamente politica. Barack Obama, premio Nobel per la pace, dopo essere stato eletto con la promessa, poi mantenuta, di ritirarsi da Iraq e Afghanistan, non vuole imbarcarsi in un’impresa bellica degna del suo predecessore George W Bush. Questa idea si traduce bene con la frase “no boots on the ground” – i soldati usa non poggeranno più i loro stivali su suolo straniero – spesso pronunciata dal Presidente. Peraltro l’opinione pubblica americana non accetterebbe di farsi coinvolgere nell’ennesima guerra medio orientale e di veder tornare i propri giovani dentro bare avvolte dalla bandiera a stelle e strisce. L’ormai evidente fallimento dell’ intervento americano in Iraq del 2003 e il tentativo, politicamente incompleto, di costruire un Afghanistan veramente democratico, hanno insegnato agli usa ad avere una strategia politica a lungo termine, definita prima dell’ intervento. Oggi questa non c’è e il dopo Daesh è ancora fonte di dibattito.
- Il secondo motivo è economico. Adesso che finalmente negli usa la crisi economica ha lasciato il posto ad una invidiabile crescita, l’amministrazione Obama non ha intenzione di essere costretta a finanziare una guerra onerosa, che potrebbe protrarsi per molti anni. Inoltre sebbene gli interessi americani siano danneggiati dall’instaurazione del Califfato, non non lo sono al punto da costringere un intervento usa nell’area.
- Il terzo motivo è di carattere militare. Daesh può contare su almeno 40.000 combattenti esperti, armati per lo più alla leggera ma che godono di grande mobilità su un territorio, che hanno ormai imparato ad amministrare. Per assicurasi una rapida e sicura vittoria, gli Stati Uniti ed i loro alleati dovrebbero schierare centinaia di migliaia di uomini, con un notevole dispiegamento mezzi e di armamenti pesanti. I caduti sarebbero troppi e il successivo consolidamento della presenza militare nelle aree liberate, sarebbe oggetto di una sanguinosa ed interminabile guerriglia. Motivi sufficienti per scoraggiare l’invio di soldati sul terreno. Inoltre il Califfato ha raggiunto la sua massima espansione territoriale e da adesso in poi potrà solo arretrare. Così come il terzo Reich tra il 1942 e il ’43, dopo la sconfitte di Stalingrado e di El Alamein, cominciò il suo inesorabile declino, oggi Daesh soffre la medesima situazione, dopo le sconfitte di Kobane e Tikrit. Infine pare, dalle poche notizie che trapelano dall’interno dei confini del Califfato, che siano in corso continue rivolte e ammutinamenti tra le fila delle milizie islamiste. Sintomo di una perdita di compattezza, gli scontri, avvengono spesso tra miliziani stranieri (islamisti europei o ceceni) e combattenti indigeni, rendendo ancora più frammentaria la già sanguinosa guerra tribale fratricida che imperversa nell’area. Ciò ci porta direttamente al quarto motivo.
- Questo è, a mio avviso, il più importante. Per quanto sia difficile da ammettere, quella a cui stiamo assistendo non è una guerra tra Occidente e Islam, ma una guerra intestina al mondo islamico. Più precisamente una guerra combattuta per delega dalle due potenze regionali del medio oriente: Iran e Arabia Saudita, che si combattono indirettamente per contendersi l’egemonia. Quella a cui stiamo assistendo è parte del secolare scontro tra sunniti e sciiti. Questa è la guerra tra una visione radicale dell’Islam e tutti coloro che non la accettano, che siano sciiti, kurdi, yazidi, cristiani o altri sunniti non salafiti wahhabiti. Infine questo conflitto è frutto degli errori commessi dall’ingerenza occidentale in quest’area, dal lontano 1914, quando inglesi e francesi segnarono su cartine geografiche i confini che oggi vengono cancellati dal Califfo Al Baghdadi. Questo senza contare che un qualsiasi tentativo di liberazione, delle aree controllate dallo Stato Islamico, verrebbe trasformato dalla propaganda islamista nell’ennesima “occupazione americana”, coalizzando cosi le varie fazioni contro un nemico comune.
Daesh però è destinato a sgretolarsi per le lotte intestine che cominciano a dilaniarlo e per la resistenza del resto del mondo islamico, che vincerà il terrore fondamentalista.
È quindi giunto il momento, per gli Stati Uniti, di aiutare gli oppressi a vincere questa guerra da soli e non di vincerla al posto loro. Il presidente Obama ha colto ancora una volta lo spirito del tempo e non cadrà in errore come chi l’ha preceduto.
Lamberto Frontera