Il popolo di Israele ha scelto. Nelle elezioni tenutesi il 17 marzo, per il rinnovo della Knesset, il parlamento israeliano, ha prevalso il Likud, partito del primo ministro in carica, Benjamin “Bibi” Netanyahu. È quest’ultimo il vincitore della sfida elettorale anticipata, da lui voluta. I risultati sono chiari e diversi dalle previsioni. Sono trenta i seggi conquistati dal Likud e ventiquattro quelli ottenuti da Unione Sionista (la coalizione di sinistra, guidata da Herzog), principale forza di opposizione al governo, data per vincente alla vigilia delle elezioni. Lista Araba, primo partito degli arabi israeliani, si è piazzato al terzo posto con quattordici seggi. Infine, ci sono altri sette partiti, tutti con un numero di seggi compreso tra sei e undici. Alcuni di questi partiti sono di estrema destra e hanno perso consenso in favore del Likud di Netanyahu.
Il Primo Ministro ha condotto una campagna elettorale violenta, razzista e di estrema destra e ha dichiarato che:
“Penso che chiunque voglia creare uno Stato palestinese e ritirarsi dai territori occupati da Israele favorirà gli attacchi contro Israele”.
Quando gli hanno chiesto se questo significasse che non avrebbe mai permesso la creazione di uno stato palestinese, nel caso fosse stato rieletto, Netanyahu ha risposto semplicemente “Sì”. Fortunatamente, il 20 marzo, è giunta la rettifica, in un’ intervista rilasciata all’emittente americana Msnbc, dopo le sollecitazioni degli USA e del segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon. Adesso “Bibi” si dichiara pronto alla creazione di due Stati, ma in condizioni diverse da quelle attuali. Ha ammorbidito, quindi, le sue precedenti affermazioni, con le quali ha conquistato il voto degli estremisti di destra, che non davano ai palestinesi alternative, se non quella della lotta armata.
Netanyahu ha vinto facendo leva sul terrore e sulla paura. Paura di un Iran nucleare, paura dei Palestinesi, paura del terrorismo e paura persino degli Arabi Israeliani. Difatti, nei giorni precedenti al voto, ha messo in guardia gli elettori dal pericolo di un governo di sinistra appoggiato dagli Arabi (Lista Araba), che avrebbe minacciato la stabilità della nazione. Nethanyau si conferma cosi il Presidente dei soli Ebrei Israeliani e non di tutti gli Israeliani, ponendo difatti la prima pietra di uno stato di apartheid che non dovrebbe mai vedere la luce.
Il fatto che abbia vinto la destra, capeggiata dal primo ministro che si prepara ad essere il più longevo della storia politica del paese, induce a pensare che gli elettori vivano sempre più di retorica nazionalista e sempre meno immersi nella realtà. Nei fatti, dopo anni di governo di Netanyahu, niente è cambiato, se non in peggio. La paura dell’altro, dietro la quale sopravvive il governo di “Bibi”, cela gravi problemi sociali ed economici, come quello della crisi degli alloggi e il carovita, che causarono, peraltro, la rottura con Khalon. Questi, ex ministro delle finanze di Nethanyau, ora leader di Kulanu, partito di destra arrivato quinto alle elezioni, sarà probabilmente il partner del nuovo governo a guida Likud.
La rottura con Kahlon non è né l’unica, né soprattutto la più significativa di cui “Bibi” è responsabile. La più importante è quella avvenuta con il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Questa è giunta al suo culmine con l’intervento del premier israeliano al Senato USA, dove è stato caldamente applaudito dai Repubblicani. Il terreno di scontro è quello della politica estera americana. L’Amministrazione Usa sta ridisegnando le alleanze in Medio Oriente in funzione anti-Isis, tentando un accordo con l’Iran sulla questione del nucleare. A questo accordo, senza proporre alternative, si oppone Netanyahu, che, come per lo Stato Palestinese, non cerca alcun compromesso ma solo lo scontro diretto. L’allontanamento dagli USA e -più in generale, dall’Occidente – non è mai stato così evidente. Israele si sta alienando la simpatia di cui ha goduto fino ad ora a livello internazionale, per colpa di “Bibi”. Questi è incapace di capire che un accordo – riguardo l’Iran e lo Stato Palestinese – è possibile e auspicabile, ma condanna, ancora una volta, il suo Paese a un conflitto permanente e all’isolamento internazionale.
Gli elettori avrebbero potuto vincere il regime di terrore nel quale il premier ha fatto sprofondare la nazione e avrebbero potuto inaugurare finalmente una politica progressista, volta al benessere e alla pace. Purtroppo però hanno scelto, di nuovo, di dare fiducia ad un uomo, che di fiducia non né conserva più fuori dai confini di Israele e che posticipa solo la risoluzione dei problemi che attanagliano il paese.
Si profila quindi un futuro oscuro per questa nazione, che si sta spostando sempre più a destra, in un contesto regionale che richiederebbe più pragmatismo e meno nazionalismo.
Lamberto Frontera
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