21 Novembre 2024

Le democrazie sono sotto assedio? Quel che è certo è che la loro capacità di rispondere alle sfide dettate dalla contemporaneità è messa in discussione sempre più ampiamente. Quasi un anno fa, il “Democracy Index 2020” elaborato dall’Economist Intelligence Unit segnalava che più di un terzo della popolazione mondiale viveva sotto un regime autoritario, soltanto l’8.4% era cittadino di una piena democrazia e quasi il 70% dei paesi analizzati aveva accusato un calo dei punteggi complessivi, implicando che il livello della sua qualità è in diminuzione anche laddove si pensava fosse più radicata. In Europa, il 30% dei tedeschi dichiara di avere poca od alcuna fiducia nella democrazia, in Italia, una maggioranza forte del 56% si dichiara d’accordo con la domanda posta da Ipsos: La democrazia ormai funziona male, è ora di cercare un modo diverso/migliore di governare l’Italia?”. Persino negli Stati Uniti, che sono una repubblica dal 1778 e non hanno mai conosciuto altro sistema oltre a quello democratico in tutta la loro storia, l’ex presidente Trump, il 6 gennaio 2021, dopo aver perso le elezioni e nel tentativo di ostacolare il pacifico trasferimento dei poteri, ha incitato una folla di sostenitori a prendere d’assalto il Campidoglio. Pur fallendo nell’intento di ribaltare l’esito della volontà popolare, la minaccia dell’estrema destra statunitense continua a “puntare un coltello alla gola della democrazia“.

La sfiducia nella democrazia rappresentativa va collocata nel contesto globale attuale, profondamente colpito ed influenzato dalla pandemia di Covid-19, scoppiata in Cina del dicembre 2019, nonché dalle molteplici crisi successive che da essa sono state innescate. La necessità di rispondere alle esigenze di carattere sanitario in tempi rapidi, così come il bisogno di sostenere le economie dissestate con strumenti di carattere emergenziale, hanno favorito il maturare crescente nell’opinione pubblica occidentale dell’idea che, forse, le istituzioni democratiche potrebbero non in grado di fare tutto ciò che serve. Tale percezione, talvolta, si è acuita ponendo a confronto l’andamento delle democrazie occidentali con quello del loro maggior concorrente: la Repubblica popolare cinese. Mentre la gran parte dei paesi europei tenta di recuperare la ricchezza persa negli ultimi due anni, Pechino vanta +8% di PIL anche nel 2021. Mentre gli Stati Uniti contano più di 800.000 morti per Covid-19, la Cina dichiara di averne avuti solo 4.636. Poco importa se essa abbia avuto gravissime responsabilità nella diffusione del virus, se i dati sulla sua crescita economica siano poco trasparenti e se quelli sulla diffusione del contagio nel proprio paese potrebbero essere del tutto inattendibili (d’altronde la Cina è totalmente priva di libera informazione): al tempo dell’analisi quantitativa, i dati parlerebbero chiaro, l’ascesa del più potente regime autoritario al mondo non si arresta, così come la narrazione che il suo modello politico-economico sarebbe migliore del nostro.


Sebbene tra i nostri concittadini sia fortemente aumentata la percezione che il regime cinese possa rappresentare una grave minaccia (come rilevato da ISPI) e la fase di avvicinamento tentata dal governo Conte, culminata con la firma del Memorandum di intesa, sia terminata, qui come altrove sta crescendo il numero di coloro che nell’ascesa cinese, nella disciplina della sua società, nella capacità di controllo del regime e nell’efficienza delle sue politiche autoritarie, vi intravede un modello da imitare, capace di assicurare la crescita economica e la fuoriuscita dallo stato di incertezza e fragilità che caratterizza il nostro sistema. Del resto, la sfida per l’egemonia globale è ormai lanciata, come attestano stragrande maggioranza degli osservatori.

Ma non è la prima volta che nello scontro secolare tra regimi autoritari e democrazie, tra economie fortemente accentrate e capitalismi, la bilancia del destino sembra propendere verso le prime, non è la prima volta che la disillusione verso la democrazia rischia di divampare.

Gli anni Trenta del Novecento

L’Europa di poco meno di un secolo fa fu caratterizzata da processi di grave crisi politica ed economica. Il Vecchio continente, che usciva straziato dalla Prima guerra mondiale e dalla pandemia di influenza spagnola, cominciava a subire i primi devastanti effetti della Grande crisi, iniziata negli Stati Unti nel 1929. La disoccupazione crebbe a ritmi smisurati, l’iperinflazione galoppava in una Germania già esausta dai costi delle riparazioni di guerra e nel 1931 si era detto addio al sistema del Gold Standard, aprendo ovunque a svalutazioni competitive dei cambi, al protezionismo ed alla contrazione del commercio globale. In poche parole, “la crisi economica aveva messo in evidenza i problemi di un sistema capitalistico basato sull’economia di mercato“(1).

“Per tutti gli anni Trenta, la democrazia europea – che pure era sembrata uscire trionfatrice dal primo conflitto mondiale – visse i suoi momenti più neri. […] Con la Grande Crisi, con i successi nel nazismo in Germania e la crescita generalizzata dei movimenti autoritari in Europa e nel mondo, si capì che il male era più profondo e non risparmiava nemmeno i paesi economicamente più sviluppati. In ampi strati dell’opinione pubblica si diffuse la convinzione che i sistemi democratici avessero ormai i giorni contati; che fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse tra il comunismo sovietico stalinista e i regimi autoritari di destra”(2).

D’altronde, mentre la crisi galoppava implacabile negli Stati Uniti (disoccupazione al 24.9%), nel Regno Unito e progressivamente anche in Francia e nel resto d’Europa, la Germania nazista recuperava il primato europeo nella manifattura e tendeva alla piena occupazione, così come l’URSS cominciava a segnare tassi di crescita della produzione esorbitanti, recuperando il terreno perso durante la guerra civile e affermando tutta la superiorità del comunismo sovietico.

Nel pieno degli anni Trenta, la leadership hitleriana, che perseguiva la nazionalizzazione delle masse popolari, il cui partito unico al potere manovrava l’economia gestendo circa il 50% di tutti gli investimenti industriali nel paese(3), trascinò in brevissimo tempo la Germania fuori dalle crisi che attraversava, facendola uscire dalle umiliazioni imposte dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale e neutralizzando lo stato di decadenza e disoccupazione che la Grande Crisi stava imponendo alle potenze vincitrici. Poco importò, all’epoca, se i mirabolanti risultati raggiunti dal regime nazista fossero stati innescati da quell’economia di guerra che mirava a distruggere la pace europea, che il reale tenore di vita delle classi lavoratrici tedesche fosse peggiorato e che alla piena occupazione si accompagnassero quelle sempre più incessanti discriminazioni, persecuzioni e violenze che culminarono nel genocidio degli Ebrei d’Europa (6 milioni di vittime): non furono pochi coloro che nel resto d’Occidente, almeno fino al settembre ’39, credettero alla propaganda nazista. A titolo di esempio, si ricordino le simpatie verso il nazismo di Charles Lindbergh con l’American First Commitee e di Henry Ford, negli Stati Uniti, quelle dell’ex sovrano Edoardo VIII, nel Regno Unito o quelle dei 50.000 manifestanti che tentarono l’assalto dei palazzi del governo a Parigi, nel 1934. La guerra d’aggressione hitleriana, comunque, pose fine al sostegno che il nazionalsocialismo stava guadagnando in Europa occidentale, rese esplicito il suo progetto criminale e mise anche in luce tutte le fragilità economiche del suo modello industriale, incapace di reggere il confronto sia con i capitalismi che con il comunismo sovietico.

Negli stessi anni, il successo dell’URSS riscosse ancora più sostenitori poiché aveva trasformato l’impero zarista devastato dalla guerra in una grande potenza industriale nell’arco di pochi anni:


“Dal punto di vista occupazionale, la politica del regime fu un successo straordinario e senza uguali. La forza lavoro urbana passò da 11,3 milioni nel 1928 a 22.8 milioni nel 1932. Nello stesso momento in cui l’Europa capitalista attraversava una fase di profonda recessione, in URSS non esisteva disoccupazione. […] Ma se l’edificazione del socialismo appariva eccitante alle masse di intellettuali occidentali che venivano a dare un’occhiata, nella realtà fu pessima e nociva”(4).

Il lavoro forzato svolse un ruolo significativo nel generale processo di industrializzazione e circa il 25% di tutti i lavori di costruzione fu effettuata dagli oltre 3 milioni di persone che nel 1933, per ragioni politiche o etniche, erano detenute nella rete di prigioni, campi correttivi e colonie di lavoro(5). Dopo la guerra civile e le persecuzioni politiche che l’avevano accompagnata, le collettivizzazioni fecero altri milioni di vittime (nel 1930, nel solo Kazakistan, oggi nuovamente al centro della politica moscovita, ci furono 2 milioni di morti). “La legge delle spighe”, varata nel 1932, volta a requisire sistematicamente il grano ucraino per alimentare il fabbisogno interno e persino delle sorprendenti esportazioni a prezzi di duming (1.8 milioni di tonnellate nel 1933), condannò alla morte per fame quasi 5 milioni di ucraini (metà dei quali bambini) del ceto contadino(6). E queste non sono che alcune delle più gravi efferatezze prodotte dall’ascesa del regime autoritario stalinista. Per i più fortunati: “Dopo l’imposizione di una ferrea disciplina del lavoro e di fronte alle sempre crescenti scarsità alimentari, al razionamento e alla penuria di beni di consumo, i sindacati furono trasformati da protettori dei lavoratori in guardiani della disciplina, volgendosi unicamente alla produzione ed alla repressione delle aspirazioni individuali”(7). Ma ci vollero molti anni perché tutto ciò si sapesse in Occidente. Dopo la vittoria degli alleati contro le potenze dell’Asse, si dovette aspettare la morte di Stalin perché in Unione sovietica si desse avvio ad un primo e parziale riesame di ciò che era accaduto. Senza entrare nel merito della discussione sulla competizione tra modelli che seguì la fine della Seconda guerra mondiale e terminò soltanto a cavallo degli anni Ottanta, ci basti dire che il primo successo economico sovietico verificatosi negli anni Trenta fu il prodotto di durissime politiche repressive, sconosciute o comunque sottovalutate da chi in Occidente predicò la maggior efficienza di quel modello politico-economico, rispetto alla decadenza dei sistemi democratico-capitalisti.

La situazione attuale

Così, anche qualora si voglia credere all’idea che l’autoritarismo può produrre risultati economici migliori in conseguenza di particolari condizioni (anche se è tutto da dimostrare attualmente, guardando ai fallimenti del passato), non si può tralasciare la variabile dei costi sociali, umani e ambientali dei risultati economici vantati.

Il governo di Pechino, che ha edificato la sua stabilità al prezzo di milioni di vittime (sarebbero tra i 30 e i 60 milioni le vittime del Grande Balzo e persino 336 milioni gli aborti forzati praticati in nome della Politica del figlio unico) ha compiuto il suo più recente massacro soltanto nel 1989, quando quasi diecimila studenti e lavoratori che inneggiavano alla democrazia sono stati massacrati in Piazza Tienanmen. Da allora, mentre il paese si è parzialmente aperto all’economia di mercato, il potere politico è rimasto saldamente nelle mani del Partito unico, lo stesso che controlla anche stampa a magistratura, reprimendo ogni sorta di dissenso. Primo paese al mondo per esecuzioni capitali (calcolate in migliaia da Amnesty International, sebbene il loro numero esatto sia sconosciuto perché coperto da Segreto di Stato), la Cina ospiterebbe oltre un milione di detenuti nei campi di rieducazione nello Xinjiang, dove la minoranza etnico-religiosa degli Uiguri sarebbe vittima di atti genocidari (tra il 2017 e il 2019 il numero di donne non fertili è cresciuto del 124%). Per coloro a cui è andata meglio, ovvero i ceti medi inurbati di etnia Han, gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un incessante sfruttamento lavorativo (è stato a lungo seguito il sistema 996, ossia di 12 ore di lavoro al giorno per sei giorni la settimana) e da profondi rischi per la salute umana e per quella dell’ecosistema naturale (fino a pochi anni fa si stimavano più di un milione di morti premature l’anno a causa dello smog).

Insomma, anche volendo credere allo stato dello straordinario sviluppo cinese, risulta difficile accettarne il prezzo. Un costo che, seppur in modo molto diverso, è stato imposto anche alle classi lavoratrici occidentali:

“In pochi decenni il grande boom ha sviluppato un trasferimento di ricchezza da Occidente verso Oriente. Ciò ha permesso di far uscire dalla povertà molti milioni di abitanti da una parte del globo, ma, contemporaneamente, ha impoverito milioni di cittadini ignari dell’essere diventati merce di scambio di una visione della globalizzazione distorta. Abbiamo silenziosamente permesso e alimentato una sorta di livellamento globale, la materializzazione del sistema dei vasi comunicanti, il tendenziale appiattimento. Ciò sarebbe anche teoricamente accettabile se, come abbiamo evidenziato, i differenti sistemi economici fossero (per lo meno) simili, se al gioco dell’economia dell’economia globale si giocasse con le stesse regole. Il trasferimento di ricchezza tra Occidente e Oriente è il frutto di una competizione scorretta, di modelli economici e politici differenti e incompatibili. L’eutanasia ideologica neoliberista, quando la Cina è entrata nel WTO, si immaginava che in poco tempo, quando  i lavoratori inizialmente poveri sarebbero diventati consumatori, il mercato cinese sarebbe stato una grande ed irripetibile opportunità. Centinaia di milioni di nuovi potenziali consumatori “affamati” di beni occidentali. Invece la Cina ha eretto barriere impendendo di fatti investimenti diretti e importazioni di grandi quantitativi di merce. Mentre una parte del globo si arricchiva, l’altra si impoveriva. La bilancia commerciale dei singoli paesi è la cartina di tornasole del trasferimento: la quantità di merce importata dalla Cina è di gran lunga superiore a quella esportata e ciò ha finito per toccare anche i lavoratori: quelli della parte del globo senza protezione né garanzie sociali, e quindi a buon mercato, hanno in parte sostituito la mano d’opera dei Paesi più evoluti con un sistema più protettivo, mentre la finanza globalizzata si è ubriacata della massa di denaro proveniente dagli enormi profitti.”(8)

Se tutto ciò è vero, è possibile venire a capo della principale contraddizione insita nella crescita cinese: è stata originata dalla nostra miopia, se non anche dalla malafede di quelle élites economiche globali che, in nome del profitto illimitato, hanno favorito, con investimenti e delocalizzazioni, l’ascesa di Pechino. Lo sviluppo cinese, che per decenni si è fondato sull’imitazione della manifattura occidentale e la vendita a prezzi di dumping sui mercati globali, non avrebbe alcunché di miracoloso, ma sarebbe fondato su basi fragili. Comprendendolo, è anche possibile immaginare che, con un’inversione di quelle politiche che sono state alla base del declino economico delle democrazie occidentali e della loro perdita di competitività, sia possibile arginare il “livellamento globale”.

Conclusioni

Se, quindi, si accetta l’idea che dalle esperienze autoritarie è altamente irresponsabile e pericoloso prendere ispirazione, neanche nei momenti di profondo smarrimento storico, per via dei catastrofici costi che ogni affermazione di tale modelli porta con sé e se si comprende appieno che dietro la narrazione dell’ineluttabile ascesa, si nascondono anche i fondamentali errori delle democrazie occidentali, è necessario ripensare prioritariamente la nostra visione della globalizzazione ed in generale, quelle certezze che hanno accompagnato la nostra storia economica negli ultimi decenni.

Anche stavolta, è possibile trarre un importante insegnamento a ripensare e ridiscutere le nostre certezze dall’esperienza degli anni Trenta. Se è vero che fu necessaria la Seconda guerra mondiale per aprire un mondo nuovo, fu già dalla metà di quel decennio che una nuova dottrina economica si affermò negli Stati Uniti, profondamente diversa da quella dominante e capace di porre in essere un determinante mutamento di traiettoria storica: la teoria economica elaborata da John Maynard Keynes. Contro il laissez-faire liberista, che aveva caratterizzato le inefficienti politiche pubbliche occidentali e fatto precipitare i paesi vincitori della Prima guerra mondiale nell’abisso di recessione e disoccupazione della Grande crisi, ripensò il ruolo dello Stato nella società e nella produzione, fornendo gli strumenti teorici per il New Deal rooseveltiano. Contro i modelli di pianificazione allora avviati dall’Unione Sovietica e dall’Italia fascista, egli immaginò lo Stato come portatore di un’intelligenza collettiva, che non solo non ostacolasse ma rendesse possibile il dispiegarsi in pieno dell’energia costruttiva dello spirito individuale.

Oggi, sarà possibile invertire le attuali tendenze soltanto praticando una rivoluzione del pensiero di simile portata, nella consapevolezza che, comunque, mentre i regimi autoritari tendono a nascondere le proprie profonde debolezze dietro a immagini scintillanti, l’apparente fragilità delle democrazie occidentali, moltiplicata dalla trasparenza del dibattito che le caratterizza, potrebbe nascondere l’esistenza di latenti, ma più grandi ed attraenti potenzialità.

Lamberto Frontera

Note

(1) E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, Vol.1, Dalla pace di Versailles alla conferenza di Potsdam 1919-1945, Gius. Laterza&Figli, Roma-Bari, 2015; p.139

(2) G. Sabbatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo, Dal 1848 a oggi. Gius. Laterza&Figli, Roma-Bari, 2004; p.355

(3) M. Mazower, Le ombre sull’Europa, Democrazie e totalitarismi nel XX sec, Garzanti, Milano, 2000; p.140

(4) Ibidem, p.129

(5) Ibi

(6) B. Bruneteau, Il Secolo dei genocidi, Il Mulino, Bologna, 2004; pp.111-114

(7) M. Mazower, op.cit, p.130

(8) A. Selvatici, La Cina e la nuova Via della Seta, Rubbettino, Catanzaro, 2018; p.31

 

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Lamberto Frontera

Classe 1995, laureato in Relazioni Internazionali presso l'Università degli Studi di Firenze, appassionato di storia, politica ed economia, oltre che di informatica, cinema ed arte, scrive per Uni Info News dal 2015

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