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Men in Black: International

Men in Black: International

Non si può certo dire che sappia coinvolgere ed emozionare questo Men in Black a cui si aggiunge il numero quattro in quanto seguito della prima trilogia con protagonisti Smith e Lee Jones. International però non vuole avere un legame particolarmente ferreo con i predecessori, tanto da stringere con essi collegamenti che hanno l’aspetto di semplici omaggi e citazioni più che a rimandi per eventuali confronti. Tolto il punto di congiunzione rappresentato da Emma Thompson, già vista nel terzo atto con Josh Brolin, la pellicola di F. Gary Gray s’avventura in un viaggio di costruzione e formazione dei e con i suoi due nuovi protagonisti: l’agente H e M.

La nuova veste che Men in Black sceglie di indossare è al passo con gli usi ed i costumi dei blockbuster più moderni ed intraprendenti, ma non eccelle mai in nessun suo potenziale elemento di forza: sia che riguardi la storia che i due nuovi eroi proposti; manca anche una vera e propria nemesi in grado di funzionare a dovere ed il finale, oltre che scontato (male di poco considerando la natura di questi lungometraggi ad ampio bacino di utenza) non sa donare un briciolo di tensione percettibile.

Tecnicamente, per quanto International sappia tenersi su con le proprie gambe, non esagerando con una messa in scena caotica, siamo anni luce lontani dalle atmosfere che avevano contraddistinto l’esordio del primo capitolo. A mancare è tutta quella componente sci-fi molto fisica e molto “body” dove l’elemento creativo ed artistico, gli effetti visivi, il trucco e la concezione delle creature da tenere sotto controllo, facevano un lavoro notevole nel saper rimanere impresso in chi lo guardava.

Le creature portate su schermo, dai colori vivaci, dalla pigmentazione cutanea sgargiante e dai richiami estetici molto somiglianti alle meraviglie uscite dalla valigia di Animali Fantastici e Dove Trovarli ed a Monster & co., hanno perso quella credibilità e caratterizzazione fondamentale e funzionale. C’è persino una precisa classificazione dove il gradimento si declina in base all’estetica e per questo fin da subito è possibile intuire, attraverso la forma, la sostanza degli abitanti dell’universo alieno: si passa da figure femminili umanoidi super sexy (Rebecca Ferguson dopo Doctor Sleep continua a trasudare sensualità ad ogni sguardo) fino a creature dotate di tentacoli al posto degli arti superiori metafora della possessione femminile sull’uomo dal punto di vista sessuale; fino a comprimari comici e caricaturali, completamente alieni alla realtà in cui vivono a causa della loro natura, resi simpatici dalle proporzioni e dialoghi improbabili.

Si aggiunge poi una spiacevole associazione tra il medio oriente e la minaccia extra terrestre nelle figure dei due guerrieri gemelli, apparenti antagonisti della storia. Il messaggio in fin dei conti è molto più losco di quello che il film sembra voler dire ad una lettura superficiale, suggerendo che l’occhio non solo vuole la sua parte nell’elargire un giudizio sull’individuo, ma che questi sia l’unica fonte a cui dar fede.

International promuove solo ciò che è bello, un paradigma antico di kalòs kai agathòs al cui capo svetta l’atletico Chris Hemsworth, molto meno super del Thor Marvel, continuamente coinvolto in spiacevoli siparietti imbarazzanti. Se il Dio del fulmine inspiegabilmente trova una sua ragion d’essere nel mostrarsi impacciato o sopra le righe, evenienza possibile dato il suo background tragico, l’agente H, con la sua ironia auto-celebrativa, dà sempre la sensazione di essere un protagonista stupido, a cui piace impelagarsi in scene comiche poco riuscite senza risparmiarsi anche laddove la comicità forzata non è richiesta.

E’ la prima delle molte prove di forza con cui la pellicola è costretta a convivere, non da meno c’è poi la figura di Tessa Thompson, wonder woman molto poco realistica, uscita volutamente da una scatola magica per diventare un deus ex-machina necessario per far progredire la storia, ma allo stesso tempo poco credibile persino nel contesto in cui si muove. Molly (Thompson) è sicura di sé, sa destreggiarsi nell’ambiente dello spionaggio internazionale pur senza un’adeguata preparazione e non si fa mancare un certo bagaglio culturale capace di spaziare dall’informatica alla fisica.

Una manuale umano preparato a puntino che rompe quel processo di iniziazione con cui Will Smith riusciva a segnare un forte collegamento tra il suo J e gli spettatori: ignari anch’essi di ciò che fino a quel momento pensavano fosse solo immaginazione. Non c’è sorpresa negli occhi di Molly, e di conseguenza non ci può essere immedesimazione, solo orgoglio e sicurezza, l’arroganza di chi pensava di aver passato una vita ad avere ragione su tutto e che adesso, finalmente, ne possiede la certezza.

International, nel casting e meno nei contenuti, non è un totale disastro, ma non sarà un lungometraggio degno di essere ricordato: è il niente convenzionale che naviga a vista su ogni elemento capace di allungare una miscela che sembra ormai snaturata e priva di intuizioni. I suoi protagonisti sono invischiati in una ricerca su scala globale, devono sventare una minaccia e nel farlo girano il mondo in lungo e in largo, senza lasciare un segno o sapersi ritagliare un momento di puro piacere visivo.

I Men in Black ormai hanno perso quell’ambiguità e quel fascino poco convenzionale, rappresentato al meglio dal volto rigido e carico di cinismo di Tommy Lee Jones, mutando la propria interiorità, conservando solo le apparenze, preferendo avallare una linea politically correct dove da protettori della terra hanno optato per reinterpretare se stessi quali nuovi agenti speciali con il dovere di accogliere ogni forma di vita. E’ privo di mordente e forza, un quarto capitolo al limite dell’inutile di cui non ci si sente nemmeno colpevoli della visione tanto sembra di aver aperto una parentesi di un paio d’ore dimenticabile ed inconsistente sul piano dei contenuti. Scomparirà dai nostri ricordi proprio come l’effetto del simbolico gadget dato in dotazione agli agenti in nero.

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