In Memoriam di Paul Newman
26 settembre 2008 – 26 Settembre 2013
Il grande nemico di Paul Newman è sempre stato l’Academy Award, il riconoscimento più famoso ed importante nell’industria del Cinema. Ricevette numerose nominations vincendone ben 3 statuette, una alla carriera (1986), uno come miglior attore non protagonista per Il Colore dei Soldi (che non andò a ritirare) nel 1987 ed infine l’Oscar premio umanitario Jean Hersholt nel recente 1994. A questo punto propongo, infine, un frammento dell’intervista fatta a quest’attore, venuto a mancare ormai da 5 anni, dalla Fallaci. Concludo questo articolo sottolineando dicendo, per quando mi riguarda, che Hollywood nel 2008 abbia perso uno dei più grandi interpreti di tutti i tempi e dopo tutti questi anni la sua assenza, lasciatemelo dire apertamente, si sente sempre di più. Ciao Paul!
Newman: «Io non ero partito con l’idea di fare l’attore, non ho mai avuto la polvere del palcoscenico nelle vene eccetera. Io mi sono laureato in Scienze politiche e volevo insegnare regia, fare il regista è ancora il mio sogno, una volta ho perfino girato un filmino: a mie spese. Mica per proiettarlo, per divertirmi; una cosuccia di 20 minuti, anzi 21, suggerita da un monologo di Anton Cechov. Infatti non m’è riuscito. Ci ho lavorato ben quattro giorni e non m’è riuscito. Si vede che non sono creativo». (Sorride: bellissimo).
Fallaci: Ma no: perché si mortifica? Sono sicura che lei è molto creativo.
Newman: «Sono interpretativo: l’ho detto. Altrimenti come si spiega che sia diventato subito attore? Oltretutto lo divenni per scherzo, per caso. Deve sapere che al Canyon College, dove studiavo, io non frequentavo la compagnia teatrale del College: giocavo nella squadra di calcio. Sì, sono sempre stato sportivo, mio padre era proprietario di un negozio di articoli sportivi a Cleveland, Ohio. Ma un giorno bevemmo un po’ troppa birra, finimmo in guardina, la squadra si sciolse e io, per consumare il mio tempo, entrai nella compagnia teatrale. Per scherzo, per caso. O destino?».
Fallaci: (Compunta) Destino, destino.
Fallaci: Nessuno ne dubita.
Newman: «Alcuni sì. Dubitano anche dell’Actor’s Studio. Dicono che tutti quelli dell’Actor’s Studio recitano nel medesimo modo, attribuiscono all’Actor’s Studio tutte le colpe, le strizzate d’occhi, le smorfie. Si capisce: la gente ficca il naso nell’Actor’s Studio e poi dice d’averci studiato. Ma chi ci ha studiato davvero… (Indignato). Le pare che Julie Harris reciti come Geraldine Page? O mia moglie come Shelley Winters? O Karl Malden come Tony Franciosa? Peggio: le pare che io reciti come Marlon Brando? O pensa anche lei che io assomigli a Marlon Brando?».
Fallaci: Eh, sì. Un pochino sì. (La frase è imprudente. I due laghetti azzurri diventano ghiaccio: ci si potrebbe quasi pattinare).
Newman: «Io quando i giornalisti mi dicono “reciti come Marlon Brando” o solo “assomigli a Marlon Brando”, volto loro le spalle: niente è più sciocco e più comodo che affermare“è un altro Brando, è un altro Clark Gable”; ci si toglie la responsabilità di un giudizio. Ma, se non volto le spalle, punto il dito e chiedo loro: “Qual è la qualità principale di Marlon Brando?”. Avanti: qual è? (Cauto silenzio). Glielo dico io qual è: è la capacità di rottura, è bruciare come un vulcano che sta per esplodere. È l’essere Brando e nient’altro che Brando, vale a dire il miglior attore che abbiamo negli Stati Uniti. E tuttavia restare Brando. Guardi, non lo dico perché Marlon sia amico mio, non è amico mio, è solo un mio conoscente, un collega col quale avrò scambiato sì e no 400 parole: ma io non ho la capacità di rottura che ha Marlon, io non sono sempre io. Sono un cowboy se devo fare il cowboy, un chirurgo se devo fare il chirurgo, un gigolò se devo fare il gigolò. E la gente mi guarda come si guarda un cowboy, un chirurgo, un gigolò. In Marlon invece la gente guarda Marlon che fa il cowboy, il chirurgo, il gigolò. Quanto alla mia somiglianza fisica, se c’è, e un poco c’è, non posso farci niente. Al massimo, portare la barba come un rabbino».
Fallaci:Ah, per questo porta la barba.
Newman: «Ma lei cosa vuole da me? Prendermi in giro?».
Fallaci: No, no: solo farle il ritratto.
Newman: «Che ritratto?!».
Fallaci: Lei parla e viene fuori il ritratto: anzi l’autoritratto.
Newman: «Non voglio ritratti, né autoritratti. Uno comincia col fare il ritratto e poi vuole fotografare i tuoi figli. Nessuno ha mai fotografato i miei figli. Io non permetto di fotografare i miei figli».
Fallaci: Ma chi vuole fotografare i suoi figli?! Qui siamo a Venezia e i suoi figli sono a New York. E la sua famiglia, signor Newman? (Di nuovo i laghetti diventano ghiaccio).
Newman: «La mia famiglia è un santuario e nessuno è mai entrato in quel santuario. So che alcuni la sfruttano, la propria famiglia, per pubblicità. Io non ho nessun obbligo di farmi pubblicità. Solo di recitare meglio che posso. Tutto il resto è inutile: come lasciare le impronte delle mani e dei piedi sul marciapiede del Chinese Theatre a Hollywood».
Fallaci: Sì, però su quel marciapiede ci sono anche le sue impronte. Di una mano e di un piede.
Newman: «Scalzo. Mi tolsi la scarpa e lasciai l’impronta».
Fallaci: Lei è un anticonformista, lo so.
…
Fallaci: Mi spiace che non le abbiano dato il premio a Venezia e…
Newman: «Non me ne importa nulla del premio. Recitare non è una competizione sportiva, una corsa a ostacoli per arrivare primo. E poi si sa bene come funzionano i premi, sia ai festival che agli Academy Awards: più che un attore, si premia una casa produttrice, un Paese, più che una onesta valutazione si fa un gioco politico, di convenienza. E quando il giudizio non è libero, la medaglia di quel giudizio che importa? A me basta che dicano: ecco un uomo onesto che fa il suo mestiere onestamente».
Claudio Fedele