Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, il Macbeth di Justin Kurzel è uno dei migliori tentativi di trasposizione cinematografica del più oscuro e sanguinoso dramma shakespeariano.
Anche solo leggendolo è chiaro come il cinema possa rappresentare davvero una buona scelta per dar vita alle parole del Bardo, forse la migliore delle arti per portare a termine l’arduo compito di far rivivere davanti agli occhi dello spettatore ciò che in teatro può solo immaginare.
Aiutata senza dubbio dalla progressione del cinema nel campo delle riprese e degli effetti speciali, la buona riuscita del film non era poi così scontata. Kurzel si è fronteggiato con un’arma a doppio taglio, dovendo – e sapendo – reggere il confronto con le visioni di mostri sacri della settima arte, come Welles, Polanski e Kurosawa, sulle quali tralascio qualsiasi confronto, essendo ognuna figlia del suo tempo e logicamente datata, ma nel contempo immortale.
Kurzel riesce nell’ardua impresa di restar fedele non solo alla trama, ma anche allo scritto (cosa che ad esempio Polanski aveva deciso di non fare), fedele ai versi dunque, ma riuscendo anche a non correre il rischio di annoiare quella parte di spettatori non avvezza al linguaggio teatrale, incantandola con la bellezza delle riprese e della fotografia, con la veridicità dell’ambientazione, ottenuta alternando all’oscurità e alle atmosfere cupe degli interni bui, spettrali, lugubri, le meravigliose riprese in time-lapse dei paesaggi sconfinati delle Highlands scozzesi, e gli slow-motion delle scene di guerra.
Un mix di scelte eccellenti, un cast stellare padrone del set e della storia stessa: non riuscirò più ad immaginarmi Lady Macbeth in altro modo, se non con gli occhi grandi, e pieni di odio di Marion Cotillard.
Ma quel che più Kurzel riesce a fare è mostrare la doppia faccia del Macbeth, quella comprensibile solo compiendo lo sforzo ermeneutico di scavare sotto la superficie del sensibile, andando oltre quello che vedono gli occhi, andando a cogliere le sfumature più nascoste dell’animo dei personaggi.
Macbeth, è il nome dell’opera.
Thane di Glamis, futuro Re di Scozia. Ma come spesso accade in letteratura (e nello stesso Shakespeare) colui che dà il nome all’opera non è sempre il protagonista: assoluta regina del dramma è infatti Lady Macbeth. Signora di Glamis, Signora di Cowdor, futura sovrana.
Il Macbeth è considerato l’opera più misogina del Bardo: la donna infatti, ad un primo sguardo, è il motore, la genesi unica di ogni male.
Sono tre donne (le Norne) con le loro predizioni a dare inizio alla serie infinita di violenza. È Lady Macbeth a suggerire allo sposo il piano, a convincerlo ad attuarlo quando il suo coraggio veniva meno, a tacciarlo di non essere un uomo quando lui, troppo spaventato dalle conseguenze, ritira i suoi propositi di morte.
Questa è la visione troppo comoda di un occhio maschilista però.
Se ci limitassimo a guardare all’opera con un occhio tanto superficiale, ignoreremmo volontariamente ciò che sta sotto la superficie, sotto l’interpretazione di comodo, che ci fa provar pena per Macbeth, e odio per quella donna, moglie e madre senza figli, madre dell’unico vero bambino che vediamo portato in scena: Macbeth stesso.
Una donna tanto malvagia da non esitare ad uccidere il suo stesso sangue, se ciò si fosse reso necessario.
Ma se solo ci sforzassimo a scendere nelle profondità dell’animo umano, dovremmo ammettere a noi stessi quale sia il vero ruolo delle donne in quest’opera: esse non sono altro che un catalizzatore, la mano che modella il fato secondo i desideri più reconditi dell’uomo. Che si presta ad agire, e a prendersi la colpa, per non macchiare il cuore bianco, sporco di troppa bontà, dell’uomo.
Ma Macbeth non è un santo. O un brav’uomo.
Ha vissuto una vita onesta Macbeth, fin quando non ha visto l’opportunità di realizzare le sue brame più nascoste, inconfessabili. Di dar corpo all’ambizione rimasta muta per troppi anni.
E così le tre donne (le streghe) diventano per lui la causa delle sventure. Le loro predizioni di potere però, non sono altro che una luce per Macbeth, la traslazione in un futuro possibile delle sue smanie più segrete.
E allora la profezia di un regno diventa per il thane assillo, morbo terribile che occupa l’intera sua mente, e pur discostandosi da ogni volontà di conseguenza maligna, è lui stesso, e lui solo, a realizzare la profezia. Avrebbe potuto Macbeth attendere il corso degli eventi, invece decide di uccidere il Re, rendendosi unico artefice del proprio destino, unico responsabile per la catena di morte senza fine da lì originatasi.
E nascondendosi però dietro la giustificazione di un destino già scritto, che in realtà scrive lui stesso, man mano che compie il suo disegno.
Lady Macbeth, che ci pare il demonio quando rimprovera il marito per il cuore troppo pieno di bontà, in realtà conosce bene la natura ignava, infida dello sposo. La vigliaccheria che gli impedisce di alzar la mano per scagliar la pietra, ma che non lo rende meno incapace di desiderarne gli effetti.
Vorresti, insomma, avere, grande Glamis, chi fosse lì a gridarti: “Devi fare così, per ottenerlo!”; quando ciò che vorresti fosse fatto hai più paura tu stesso di farlo che desiderio che non venga fatto.
Macbeth – e, abbandonando per un attimo la dimensione individuale, l’uomo in toto – è libero di controllare la propria vita. Non esiste un disegno già scritto, ma solo l’eco delle azioni che gli uomini compiono per realizzarlo.
Dio lascia all’uomo il libero arbitrio. Cosa sarebbe successo se Macbeth non avesse ucciso il Re? La profezia avrebbe trovato altro modo di avverarsi. Tant’è che Banquo – cui le streghe avevano profetizzato una discendenza di Re – non pensa ad uccidere il sovrano, né a toglier di mezzo Macbeth.
Ancora una volta quindi, l’uomo non è all’altezza della missione. Come Enea, come Oreste, come Giasone, come Egisto, tutti si fanno scudo del malvagio ingegno femminile per ordire piani che da soli han tramato, nelle loro menti, ma che non sono abbastanza coraggiosi da confessare.
E difatti i personaggi più malvagi della storia della letteratura sono donne, ma quante di esse hanno agito per se stesse? Riflettete.
La donna come essere perverso e spietato sembra ribaltare la visione comune del tempo in cui la tragedia è stata scritta, per la quale la donna non avrebbe dovuto esser altro che una “buona moglie”, pia, obbediente e remissiva.
Lady Macbeth invece pensa. Dispone, rimprovera il marito e lo comanda, gli ordina di compiere un’azione abietta, imperdonabile agli occhi di chiunque, e nel farlo chiede alle tenebre di snaturarla, di toglierle ogni connotato femminile, di trasformarla in un uomo, essere forte, capace delle più grandi malvagità.
Eppure se nella storia della letteratura abbiamo notato una differenza tra il genere dei grandi cattivi, è che la malvagità femminile è ad un livello superiore, di astuzia e di intelligenza, ma anche di crudeltà. Una donna non ha rimorsi, non guarda in faccia ad alcuno per portare avanti i suoi obiettivi.
Ho allattato, e conosco la dolcezza d’amare il bimbo che ti succhia il seno; e tuttavia, mentr’egli avesse fiso sul mio viso il faccino sorridente, avrei strappato a forza il mio capezzolo dalle sue nude tenere gengive, e gli avrei fatto schizzare il cervello, se mai ne avessi fatto giuramento, come tu m’hai giurato di far questo!
Quindi davanti all’esitazione del marito, Lady Macbeth si ostina, lo taccia di poca virilità, lo convince come fosse lei a trarre beneficio dall’ignobile gesto.
Il Re viene ucciso dunque, vigliaccamente, di notte nel suo letto, mentre dorme, e forse qui Polanski rende meglio l’infamia dell’azione, perché Re Duncan si sveglia mentre il thane indugia, e ci pare un Cesare morente, tradito da colui che tanto stimava, e nel quale riponeva piena fiducia.
Il sangue chiama sangue però, come aveva presagito Macbeth, e si insinua subito in lui un morbo di pazzia, di insanità che lo attanaglia, e gli impedisce di dormire,
“Mai più dormirai, Glamis!”, poiché lui ha trasformato il riposo nel sonno eterno, violando tutte le leggi della natura.
Natura che si ribella come nel Timeo, o nella Bibbia stessa, punizione degli dèi alle malefatte degli uomini, e allora piogge torrenziali e presagi nefasti sconquassano il mondo.
“Chi osa di più non è uomo” aveva presagito Macbeth, e avrebbe dovuto tener fede alle sue intuizioni, poiché se una cosa ci ha insegnato la tradizione, è che si paga sempre il fio per le proprie colpe, ma soprattutto per la propria ὕβϱις.
E proprio da cose come queste vediamo come la tragedia ci immerga appieno nella tradizione medievale, nel rapporto ambiguo che l’uomo ha con gli elementi naturali e con il mondo tutto, con il tempo e con lo spazio.
La realtà mortale non è altro che uno specchio in cui è riflessa una realtà ultraterrena, fatta di entità e forze sovrannaturali che si intrecciano con un destino già scritto, di cui sono manifestazioni.
Ah, buon padre, tu vedi come il cielo quasi sdegnato dell’agir dell’uomo distenda tutto un velo minaccioso sopra questo spettacolo di sangue. […] È la notte che ha preso il predominio, o è la terra che si copre il volto per vergogna nel tempo che baciato dovrebb’essere dalla viva luce?
Bravissimo Kurzel ad interpretare in maniera del tutto nuova le apparizioni frutto del turbamento di Macbeth: è un soldato ucciso in battaglia a porgergli la notte dell’assassinio il pugnale dalla parte del manico, chiara manifestazione dell’inconscio desideroso di compiere il delitto, sangue che chiama sangue.
Fassbender meraviglioso nei suoi deliri, nelle scene di insonnia, ma soprattutto quando al banchetto vede seduto al suo posto lo spettro dell’amico Banquo, fatto uccidere per la sua fobia ossessiva e le sue brame di potere, la cui unica colpa fu quella di farsi predire una discendenza regale. Macbeth, sconvolto dall’idea di una corona infeconda, di uno scettro sterile, dall’aver sparso sangue a beneficio della stirpe altrui, dà ordine di ucciderlo, assieme a suo figlio. Vigliaccamente, durante un’uscita a cavallo.
Ma le streghe non gli avevano predetto quanta sofferenza la felicità per la realizzazione dei propri scopi gli avrebbe portato.
La sottigliezza dell’homo faber fortunae suae si coglie nelle sfumature del testo, riportate dal regista: “Meno felice di Macbeth, eppure più felice (sarai)” avevano predetto le streghe a Banquo. E infatti, dopo aver compiuto il primo omicidio, il nuovo Re esclama:
“Fossi morto soltanto un’ora prima che questo succedesse, avrei vissuto un’esistenza lieta!”
Il destino di sofferenza di Macbeth è segnato quindi, ma non dal fato, quanto dal momento in cui la sua spada si è conficcata nel petto del buon Re Duncan. Il delirio paranoico, l’angoscia, le infinite lotte tra la notte e il mattino che lo tengono insonne non lo abbandoneranno fino al momento della sua morte.
E il compimento della profezia porta con sé la necessità di portare a compimento anche le altre. “Guardati da McDuff!” gli ricordano le streghe, e lui, nel tentativo di stanarlo e ucciderlo, stermina la sua intera famiglia, rendendolo così lui stesso suo nemico.
Ma all’ennesimo sangue versato per la pazzia del Re, Lady Macbeth non resiste, e si uccide.
Unica pecca del film sembra proprio l’aver quasi del tutto tralasciato una delle scene più belle dell’intera biblioteca shakespeariana: la pazzia di Lady Macbeth che la porta a strofinarsi furiosamente le mani per cancellare le tracce immaginarie del sangue di cui si è macchiata.
Intrappolata nel contrappasso: avea biasimato il marito per avere le mani rosse di sangue, ma la vergogna di un cuore bianco, adesso le sue mani saranno macchiate per sempre, a eterna memoria delle immonde azioni cui l’ambizione l’ha portata.
La colpa non l’abbandona, la notte non riesce a dormire, e si alza, e scrive, e torna a letto, sempre immersa in un sonno profondo
Saran mai pulite queste mani?… No, basta mio signore, basta, basta! Con questi eccessi tu rovini tutto!
Il Re, al contrario, alla notizia della morte della Regina non sembra sconvolgersi più di tanto, conscio che prima o poi sarebbe dovuto accadere. Sembra aver ormai accettato la morte come elemento onnipresente nella sua esistenza, sembra non aver altro pensiero che per la propria incolumità. Anche il potere ha ormai perso ogni significato, intrappolato Macbeth nel ruolo del tiranno, odiato da tutti e da tutti ritenuto pazzo.
Annebbiata la mente dalla paura e dal furor, egli trova conforto nelle ultime due profezie delle streghe: non sarebbe stato sconfitto finché la foresta di Birnam non avrebbe mosso verso il colle di Dunsinane contro di lui, e nessun uomo nato da donna avrebbe potuto nuocergli.
Si lancia quindi egli nello scontro finale con MacDuff, e la mente offuscata si ottunde sempre più alla vista dei soldati del nemico che avanzano tenendo in mano i rami della foresta, fino a perdere qualsiasi istinto vitale all’udire le parole del nobile scozzese: nato da cesareo, non è nato da ventre di donna.
Nelle scene ultime, tinte di rosso acceso, come il fuoco che imperversa sul campo di battaglia, dalle nubi sorgono le streghe, a rammentare il memento mori.
Macbeth, ormai conscio, abbandona ogni forza, e permette ancora una volta alla profezia di realizzarsi.
L’immortale si è arreso alla spada di MacDuff, e mentre Macbeth abbandona la vita, le Norne gli voltano le spalle, abbandonando il mondo terreno tra le coltri di nebbia rossa che tingono le Highlands.
*Piccolo P.S.: il regista ha preferito rimanere fedele al testo e non spiegare esplicitamente come si avvererà l’ultima profezia: il “King’s Man” infatti ci racconta una storia vera, come riportata dalle Holinshed’s Chronicles, romanzandola a scopo politico. Re era infatti Giacomo I Stuart, cui dedicò le sue maggiori opere: cugino di Elisabetta, le era succeduto alla sua morte senza eredi, all’estinzione della dinastia Tudor.
E l’ascesa al trono di Giacomo, diretto discendente di Banquo, permette così anche all’ultima profezia di compiersi.
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