Siamo in Francia, periferia di Tolosa. Nella banlieue di Les Izards, dove si nasconde un’umanità che non è mai riuscita a trovare un posto preciso nella società, un crogiolo di culture e razze che a causa delle proprie idee, dei propri pregiudizi e dei propri problemi è in perenne conflitto col mondo, c’è una scuola media. Qui insegna da oltre 30 anni lingua francese il professor Ardèche, cinico, disilluso, che non manca di rivelare la sua vena polemica, non effimera ed aggressiva, ma lucida e sarcastica. L’archetipo del professore convinto che la sua vittoria personale sarebbe quella di portare fino in fondo i suoi allievi senza perderne nessuno per strada, di dare loro un modello educativo di crescita culturale, ma che si vede sempre fallire nei suoi propositi. Una figura essenziale, che esercita la sua forza, e allo stesso tempo la sua debolezza, attraverso l’uso delle parole, dalla tonalità quasi piatta ma di un’incisività, di un’efficacia e di una forza che fanno di questo personaggio un simbolo iconico e solitario di una classe intellettuale borghese alle prese con i propri disagi psicologici e lavorativi in un tempo di cambiamenti epocali.
Personaggio interpretato dalla calma, tra il cinico e l’imperturbabile, di un ottimo Fabrizio Bentivoglio, già noto per le sue numerose apparizioni sul grande schermo e per le sue indubbie qualità artistiche, che ha collaborato per questo spettacolo con un altro grande nome, Michele Placido, che di questo testo ne ha firmato la regia. Certo due figure di spicco nel panorama artistico italiano, teatrale e cinematografico, di cui il pubblico del Goldoni, per l’occasione numeroso e composto anche da giovanissimi, ha potuto apprezzarne l’operato. Ma un altro nome degno di nota è quello dello scrittore e drammaturgo Stefano Massini, autore di questo testo e portavoce attraverso i suoi scritti dei tessuti sociali e culturali, italiani e non, che accomunano e coinvolgono tutti. Una personalità importante nella drammaturgia italiana (già autore di testi come 7 minuti, da cui il film dello stesso Placido, e Lehman Trilogy, con la regia di Luca Ronconi), abile nel mettere insieme elementi pop, che possano coinvolgere le sensibilità dei più, e la poetica della parola, che con la sua forza evocativa e un interprete che la sappia pensare e cogliere nella maniera giusta, è capace di dare corpo e materia a ciò cui si sta riferendo, catturando caratteristiche e particolarità di cose, situazioni e persone che abitano la scena. E questa magia accade. Un testo ricco e dinamico, che, passando repentinamente dai toni ironici e sardonici a quelli drammatici, genera fitti dialoghi, incontri e conflitti insanabili tra personaggi, battute accattivanti e un denso flusso di azioni e reazioni. Ma una parte rilevante e fondamentale è assunta dai monologhi, con i quali il professor Ardèche apre e chiude la scena. Nel monologo iniziale si presenta al pubblico, seduto su una cattedra spoglia, dalle fattezze di una scatola, in un ambiente grigio e permeato da un alone di polvere. Siamo all’inizio dell’anno scolastico. Ci spiega chi è, perchè si trova lì, e fa un excursus dettagliato, ironico, spietato e divertente sulla sua classe. Prendendosi gioco di una qualche tragicomica bizzarria che caratterizza ciascuno dei personaggi, ribattezza tutti i suoi allievi con dei grotteschi soprannomi, elencandoceli ad uno ad uno e facendo immaginare allo spettatore i loro visi e le loro fattezze, rendendoli a loro volta protagonisti di un frammento dello spettacolo. Nel monologo finale invece, che simbolicamente chiude un cerchio, siamo all’inizio dell’anno scolastico successivo: una riflessione dove non c’è spazio per buoni propositi da attuare durante l’anno, ma la cruda e disincantata consapevolezza che quello che è appena iniziato è l’ennesimo anno in cui dovrà soccombere alle drammatiche dinamiche della realtà e della sua classe. Coscienza che si fa onesta e spietata quando riconosce la propria sconfitta umana e professionale, alla luce di un incontro inaspettato che fa con “l’invisibile”: un ragazzo, di cui è stato insegnante diversi anni prima, che dietro un beffardo soprannome, è stato dimenticato e riposto nell’anonimato; uno dei tanti che il professore ha perso per sempre, senza aver dato niente. E in mezzo a tutto ciò, c’è “l’ora di ricevimento”, dove egli riceve le famiglie degli scolari ogni giovedì dalle 11 alle 12. Ed è attraverso un incalzante mosaico di brevi colloqui con l’umanità che gli si presenta, che prende vita sulla scena l’intero anno scolastico della classe Sesta sezione C.
Sullo sfondo, una scenografia scarna, grigia e arida; un ambiente quasi claustrofobico
con pochi oggetti presenti sulla scena: l’essenziale che si può trovare in un’aula di ricevimento. L’elemento che più si fa notare è l’albero che viene proiettato dalla finestra sullo sfondo; un albero, ora spoglio, ora ricco di foglie che, scandendo i ritmi regolari delle stagioni che cambiano, osserva imperturbabile e accompagna lo svolgersi ciclico degli anni che passano. Anche i costumi molto tradizionali: quelli piccolo-borghesi di Ardèche e del supplente di matematica; quelli delle diverse tradizioni religiose del corteo di genitori che vanno al ricevimento, appartenenti chi alla religione musulmana, chi a quella ebraica, chi a quella induista. Un cast giovane e variegato, proveniente dal Teatro Stabile dell’Umbria, che subisce un po’ l’egemonia di Bentivoglio/Ardèche, ma che non manca di stare in stretto contatto con lui, e di dare linfa vitale a quello che si può definire un ironico spaccato, a tratti duro a tratti divertente, della realtà, realizzato in uno spettacolo piacevole e coinvolgente.
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