In questi giorni, più di una voce critica si è levata contro la “svendita” di azioni della Telco (la quale sarà controllata, dopo due successivi aumenti di capitale, per il 70% dalla spagnola Telefonica), e quindi di Telecom, in nome, più che di un’analisi economico-sociale dei fenomeni di privatizzazione che hanno caratterizzato tutto il corso degli anni Novanta, della salvaguardia di un “onor patrio”.
Chi scrive, crede che un ragionamento assai più approfondito vada compiuto sulla vicenda degli ultimi venti o venticinque anni: la scelta di privatizzare interi comparti dell’economia statale (dal credito alla produzione d’energia, dall’industria pesante alle comunicazioni) ha, nei fatti, prodotto una conseguenza determinata ed inconfutabile: la perdita di un potere direttivo dello Stato nell’economia che si era innestato su di una strategia programmatoria che ha caratterizzato tutta la storia della politica economica della Prima Repubblica. Oggi i numeri parlano chiaro: Telecom è l’ottava società europea quanto a espansività di bilancio ed ha registrato nel 2012 perdite per circa 1,2 miliardi di euro, contrariamente al gigante spagnolo che ha registrato utili per 4 miliardi. Sorte similare è toccata ad Alitalia, di cui anni addietro qualcuno vantava la “rinascita” tricolore della compagnia.
Chi, pure a sinistra, e preparò e sostenne la sistematica dismissione dell’intervento dello Stato in economia, credendo di “normalizzare” una situazione d’eccezione (si possono considerare a riguardo più di un’intervista all’allora segretario del PDS, Massimo D’Alema, il quale con forza denunciava l’esistenza di una borghesia nazionale assistita passivamente dalla mano pubblica, un pesce fuor d’acqua, a suo parere, nel “mare” europeo) dovrà fare i conti, anche alla luce dell’intreccio palese tra crisi economica internazionale e residualità della politica industriale nazionale, con una realtà che si mostra sempre più nitida.
L’elenco qui sotto riportato è abbastanza esemplificativo della triste sorte che altri centri significativi dell’economia nazionale hanno incontrato. Ma oltre ad essere affranti per “l’orgoglio” nazionale ferito, non dovremmo interrogarci sulle fallimentari esperienze privatizzatrici che sono divenute troppo frettolosamente dei feticci?