L’Estasi dell’Oro : C’era una volta Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo.
Al pari degli altri lavori del noto regista romano, questo Western ha fatto la storia della settima arte, portando alto il nome del genere e rivoluzionando al tempo stesso un tipo di Cinema su cui iniziava a gravare una certa stanchezza e poca originalità, figlia di un ripetersi di situazioni che avevano portato al repentino svecchiamento di un genere che agli occhi di tutti appariva datato.
Leone, con la Trilogia del Dollaro, formata da Per un Pugno di Dollari, Per Qualche Dollaro in Più e Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo dona nuova linfa ad un target che aveva estremo bisogno
Tipicamente Leoniani sono gli scorci pieni di desolazione e povertà di una Spagna travestita da Texas e Messico, gli “zoom” rapidi e graffianti su il volto dei protagonisti, omaggiati da Sam Raimi in molti suoi film, in particolare in Pronti a Morire con Gene Hackman e Sharon Stone, le particolari angolazioni, i tagli di luce e le posizioni delle telecamere, i primi piani capaci di durare più di trenta secondi o la rappresentazione sulla scena, quasi fossero dei veri e propri giganti, dei tanti comprimari su schermo.
Dirà, non a caso, Stephen King nella sua prefazione alla serie di sette libri, La Torre Nera, epopea che unisce il post-apocalittico, il western ed il genere horror-fantasy:
” […] Poi, in una sala cinematografica quasi deserta di Bangor (NdT) vidi un film diretto da Sergio Leone. Si intitolava Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo e prima ancora che fossi arrivato a metà capii che quello che volevo scrivere era un romanzo che contenesse […] la magia di Tolkien, ma avesse come scenario il West quasi assurdamente maestoso di Leone. Se avete visto questo bizzarro western solo sullo schermo del vostro televisore, non potete capire di cosa stia parlando. […] Su uno schermo cinematografico, proiettato con il giusto obbiettivo Panavision, Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo è un film epico che rivaleggia con Ben Hur. Clint Eastwood sembra alto sei metri, con ogni singolo pelo della barba grosso come una sequoia. I solchi che incorniciano la bocca di Lee Van Cleef sono profondi come canyon […], lo scenario del deserto sembra estendersi almeno fino all’orbita di Nettuno e le canne delle pistole sono più o meno grandi quanto l’Holland Tunnel.”
Coerente con una visione critica e drammatica, che riprende a tratti le tragedie di Shakespeare o le commedie dei maestri del teatro classico latino, The Good, The Bad, The Ugly è il canto del cigno dell’estro creativo di un uomo, ed al contempo la rinascita di un genere, di un tipo di Cinema ormai raro da trovare e assimilare. Leone ed i suoi collaboratori trovano
La storia, o meglio, l’epopea, del Biondo, Tuco e Sentenza, arriva, dopo mezzo secolo, a noi, in tutto il suo splendore e modernità, parlando, su più livelli, di un paese, quale l’America, nato non sotto lo stendardo della pace, ma dietro al sangue ed alle guerre che ne hanno plasmato la natura e l’ossatura, portato avanti da conflitti interni ed incomprensioni, duelli e infinite battaglie che Leone non smette mai di additare come “inutili” e “stupide”. Perché, se solo ad un prima visione la pellicola si rivela essere un comunissimo inseguimento tra tre uomini, con la ricerca di un tesoro nascosto in un cimitero, che gode al suo interno di echi quasi omerici, è nel sotto testo che, come evidenzia bene la figura di Eastwood, il tutto si confà ad una denuncia nei confronti della Guerra di Secessione Americana, che il Biondo, senza mezzi termini, giudica con disprezzo, esclamando, dinnanzi alla nota battaglia tra Nordisti e Sudisti per la conquista di un ponte, posta nella seconda metà della pellicola, di “non aver mai visto tanta gente morire tanto male”. Il regista romano muove la sua spietata denuncia anche attraverso i luoghi ed i personaggi secondari, con la figura del Capitano delle Truppe Nordiste alcolizzato, il cui volto è quello di Aldo Giuffré, conscio di trovarsi, lui ed i suoi uomini, in una guerra inutile, promossa quasi più dai ricchi che dagli ideali, o con l’ausilio di
Laddove, ad esempio, Martin Scorsese, in Gangs of New York, dava a quest’ultima un’importanza relativa, la cui utilità era più “scenografica”, poiché il tutto verteva su una rivalità intestina tra diverse bande di una determinata parte di New York, amalgamandosi ai tumulti della nota metropoli, qui i protagonisti, a modo loro, interagiscono con essa e ne prendono parte, con tutti i paradossi, i drammatici lati comici e quel che ne può derivare dal cruciale conflitto. Una delle pagine più tristi e oscure della storia
Se, per semplificare il tutto, prima di Leone, il Western si riduceva alla figura dello sceriffo, del bandito, o dell’uomo per bene pronto a lanciarsi all’avventura, tra una sparatoria e l’altra, in nome della gloria, della giustizia, del bottino o dell’amore di una donna, ed aveva il volto pulito, fermo e sicuro di John Wayne, ora quel che abbiamo davanti è un mondo sporco, polveroso e crudele, di emarginati, borghese, ma al
La dualità, nell’universo di Sergio Leone, così come il beffardo cinismo, trova più che mai spazio nella storia dei tre protagonisti, ognuno dei quali intriso di una sfaccettatura psicologica e caratteriale tanto ben definita da essere denominata dal soprannome che dà il titolo al film.
Così, Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo resta una pagina scolpita nella storia del cinema, rimane un capolavoro di assoluta bellezza, rivoluzionario ed al contempo classico, per noi, certo, poveri diavoli che osserviamo da lontano una pellicola che seppe far tornare di gran voga un genere che sembrava ormai dimenticato, un po’ come, due anni fa, fece Quentin Tarantino, che non si dimenticò, nel suo Django Unchained, di omaggiare il suo film preferito e citare le tante fatiche di Sergio Corbucci e Franco Nero.
Se sarà la crudeltà della storia, del tempo e del buon gusto del pubblico, a dimostrare quanto l’autore pulp abbia influenzato le masse con il suo ultimo lavoro (o con il suo prossimo progetto: The Hateful Height) questo, al momento, rimane un mistero saperlo; resta, però, il fatto che quasi cinquant’anni dopo parliamo ancora di Tuco, Sentenza e del Cavaliere senza Nome, parliamo ancora di Leone e Ennio Morricone, di Lee Van Cleef, Clint Eastwood e
La grande anima del film, inoltre, risiede proprio nel suo essere originale sotto molti punti di vista, sia nei riguardi tecnici che dei contenuti, nell’allontanarsi dal Western “puro”, e proporre, un questo modo, una storia dai toni quasi decadenti, seppur, certo, lontani dai tratti crepuscolari di lavori quali Gli Spietati di Eastwood.
Volendo cadere nel blando romanticismo, concedetelo a chi scrive, si parla di un’opera magna in fondo, si potrebbe dire che ogni grande artista, capace di andar oltre il proprio tempo, abbia un pezzo di storia da raccontare per le generazioni future, che sia attraverso la musica, la scrittura, la scultura, la pittura o la pellicola. Se quanto detto poc’anzi, ammesso e concesso con l’ausilio dell’immaginazione, è anche minimamente vero, a pochi grandi altri cineasti sono destinati probabilmente tutti quei momenti come quei venti minuti (circa) finali che Leone ci dona con tutta la maestosità degna del suo nome, quando, giunti alla fine, tre uomini non fanno altro che guardarsi attentamente prima del colpo conclusivo che calerà il sipario sul palco della narrazione in modo definitivo.
Osservare, dopo quasi tre ore, Tuco che corre tra le tombe del cimitero di Sad Hill, con in sottofondo la traccia musicale de L’Estasi dell’Oro del maestro Morricone, ed il successivo Triello restano attimi di puro Cinema e pura gioia, per chi si definisce un cinefilo, impossibili da assorbire con apatia o indifferenza o persino da dimenticare in toto, quasi Sergio Leone avesse sparato, con questo film, una pallottola verso di noi, e pur mancandoci, avesse lasciato sulla nostra pelle una cicatrice, quelle che fanno crescere e che non spariscono mai, un po’ come Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo, che sarà impossibile da dimenticare o far sparire.