Chiunque, in quasi ogni parte del mondo, decida di assistere ad un notiziario o di leggere un giornale, si ritroverà di fronte alle immagini catastrofiche provenienti da Aleppo ed alle notizie correlate; bombardamenti indiscriminati su scuole, ospedali, centrali idriche e mercati sono entrati tristemente nella quotidianità mediatica dei cittadini europei.
Ciò che i mezzi di informazione omettono di fare, tuttavia, è descrivere, al di là dell’innegabile tragedia che si sta consumando nella città martoriata e nel resto della Siria, quali siano le implicazioni strategiche della battaglia in corso, non solo per quanto concerne la guerra civile, ormai prossima ad entrare nel suo sesto anno di ostilità, ma anche per il futuro assetto del Paese e degli equilibri di potere dell’intero Medio Oriente.
A tal proposito, è necessaria una premessa di carattere politico-geografico che permetta di comprendere quanto complessa sia l’attuale situazione del conflitto.
- Ad eccezione di una fascia di territorio compresa tra Azaz e Jarabulus, sulla riva occidentale dell’Eufrate, il nord della Siria è controllato dall’autoproclamato Rojava e dalle sue milizie YPG e YPJ, affiancate da altre formazioni arabe, cristiane e turcomanne di matrice laica, tutte raggruppate nelle Forze Democratiche Siriane ed appoggiate, a seconda delle circostanze e del teatro operativo, tanto dagli Stati Uniti quanto dalla Russia.
- Una vasta porzione di territorio a nord-est della costa, corrispondente al Governatorato di Idlib e a parti marginali di quelli di Aleppo e di Hama, è da quasi due anni governata da un’alleanza di milizie islamiste di impostazione salafita, denominata Esercito della Conquista (Jaysh Al-Fatah, in arabo) e la cui fazione egemone è il Fronte Al-Nusra, emanazione siriana di Al-Qaeda che ha da poco cambiato nome in Jabhat Fateh-Al Sham. Si stima che almeno trentamila miliziani, armati e finanziati dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo, siano schierati nel settore, forti dell’appoggio proveniente dalla frontiera turca, situata sul loro fianco occidentale.
- L’autoproclamato Stato Islamico, pur avendo perso molto terreno negli ultimi dodici mesi, è ben lungi dall’essere sconfitto e controlla ancora, oltre alla provincia di Raqqa, sua capitale, tutta l’area desertica centrale della Siria, l’intera valle dell’Eufrate, eccezion fatta per la roccaforte governativa di Deir Ez-Zor, assediata da anni, nonché, a dispetto di recenti rovesci sul campo, la piccola parte della regione di Aleppo che circonda la cittadina di Al-Bab, insieme ad altre località minori del centro-nord.
- Infine, vi è la spina dorsale del Paese, la porzione più popolata e più ricca della Siria, che si sviluppa lungo l’autostrada che, attraversando Homs ed Hama, tiene unite Damasco, l’area costiera a maggioranza alawita su cui si fonda il potere del presidente Assad e, all’estremità settentrionale, Aleppo.
Risulta evidente, dunque, come quest’ultima città, un tempo la più cosmopolita e moderna del Paese, rappresenti un crocevia di importanza strategica elevatissima per tutte le parti in lotta, soprattutto in virtù della sua posizione geografica, e non deve sorprendere, pertanto, il fatto che tutti e quattro gli schieramenti coinvolti nella guerra, attori esterni compresi, siano impegnati nella battaglia da oltre quattro anni.
Dopo una serie di attacchi e di contrattacchi durata quasi un anno, le forze leali al raìs di Damasco, composte, oltre che da soldati dell’esercito regolare, da combattenti appartenenti ad una galassia di milizie di varia estrazione, da quelle sciite finanziate dall’Iran e provenienti da Iraq, Afghanistan, Pakistan e Libano (tra cui i ben noti Hezbollah) a quelle laiche di ispirazione baathista e panaraba come la palestinese Liwa Al-Quds, oltre che da pasdaran iraniani e da spetsnaz russi, sono riuscite ad interrompere l’ultima via di collegamento tra i quartieri in mano ai ribelli ed il mondo esterno, impedendo definitivamente l’arrivo di rifornimenti bellici, oltre che di aiuti umanitari.
Allo stato attuale, di conseguenza, nella città vecchia di Aleppo, ad eccezione della Rocca, patrimonio dell’UNESCO, sono assediati tra i cinquemila e gli ottomila miliziani, di cui circa un migliaio affiliati ad Al-Nusra e gli altri ad altre formazioni minori, quasi tutte jihadiste, raggruppate sotto il comando unificato di Fatah Halab. A questo coacervo apparteneva anche, fino alla fine di agosto, Ahrar Al-Sham, compagine filo-turca facente parte dell’Esercito della Conquista, prima che quasi tutti i suoi combattenti venissero ritirati su direttiva di Ankara e rischierati a nord, nel settore di Jarabulus, da cui ha preso il via l’operazione Scudo dell’Eufrate, formalmente anti-Daesh, de facto anche e soprattutto volta ad impedire l’unificazione dei tre cantoni del Rojava.
La città nuova, la zona industriale, l’aeroporto internazionale e l’intera periferia orientale, fino alla base militare di Kuweyres, sono saldamente nelle mani dei governativi, che impiegano nell’intero settore più di trentamila uomini.
Al di fuori della tenaglia assediante, i ribelli occupano i sobborghi più ad ovest, mentre i curdi, che hanno collaborato a più riprese con i lealisti, sia qui che a nord, sono arroccati nel loro quartiere di Sheikh Maqsoud; assai più a settentrione, ben distante dalla battaglia, si trova la regione di Afrin, il cantone più occidentale del Rojava.
In questo momento, circa diecimila uomini appartenenti allo schieramento di Assad, sostenuti da un micidiale fuoco di artiglieria e dai martellanti bombardamenti dell’aeronautica russa, oltre che di quella siriana, stanno sferrando l’attacco decisivo alle difese ribelli, puntando a dividerle in due e, da lì, a frazionarle in tante piccole ed isolate sacche di resistenza, con il fine ultimo di ristabilire un controllo completo su Aleppo.
Cosa accadrebbe se, come pare, tale offensiva dovesse portare ad una vittoria lealista?
Innanzitutto, occorre premettere che questo esito, salvo interventi militari di altri attori esterni, non sia probabile, bensì certo.
A quel punto, con tutte le principali città della Siria nelle sue mani, Assad potrebbe sedersi da pari al tavolo delle trattative, spalleggiato dal suo protettore Putin, determinato a mantenere il controllo sulle basi costiere di Latakia e di Tartus, le quali costituiscono la proiezione strategica russa sul Mediterraneo. Il raìs sarebbe in grado di richiedere in tutta tranquillità e trattando da una posizione di forza di restare al potere e di mantenere il governo sulle regioni controllate dalle sue truppe, concedendo una vastissima autonomia al Rojava e tollerando la nascita di una enclave sunnita nel governatorato di Idlib. Con gli Stati Uniti impegnati ad attendere l’esito delle prossime elezioni ed a litigare con Erdogan sullo status diplomatico-militare dei curdi, sarebbe perfino in grado di rivolgere le sue attenzioni ad est, verso i territori in mano allo Stato Islamico, riconquistando almeno la valle dell’Eufrate, riguadagnando, paradossalmente, perfino credibilità internazionale ed umiliando definitivamente le potenze sunnite che hanno investito miliardi di dollari pur di abbattere il suo sanguinario regime.
Viceversa, potrebbe scegliere un’opzione più muscolare, riorganizzare le sue forze ed attaccare da due lati l’area in mano all’Esercito della Conquista, tentando di mantenere la promessa, fatta personalmente in televisione, di riconquistare la Siria shibr shibr, “pollice per pollice”.
Tuttavia, a parere di chi scrive, è ben più probabile la prima eventualità. Difficilmente, infatti, Russia ed Iran accetterebbero di dissanguarsi e di spendere cifre iperboliche per una campagna dalla durata indeterminata e, soprattutto, dall’esito incerto, vista la notevole forza militare dell’alleanza salafita e l’appoggio esterno di cui sicuramente godrebbe. Al limite, il regime potrebbe tentare di riconquistare alcune località strategiche a nord-est di Latakia, così da puntellare ulteriormente il suo potere nella zona, ma non di più.
In conclusione, sarebbe auspicabile guardare agli avvenimenti in corso ad Aleppo non solo per indignarsi, seppur giustamente e con piena cognizione di causa, di fronte alle sofferenze patite dalla popolazione civile, bensì anche perché, com’è evidente, il devastante conflitto scoppiato nel marzo del 2011 potrebbe avviarsi verso una svolta.