L’obiettivo a cui Le Mans ’66 – La Grande Sfida vuole arrivare è quello di offrire una storia emozionante e adrenalinica di due uomini che hanno declinato la propria esistenza ad una fede incrollabile il cui oggetto sono le automobili da corsa. Sono due vite che le lega il rombo dei motori, lo stridore dei freni, le meccaniche dei pezzi di metallo che si muovono con precisa armonia all’interno dei veicoli ed infine, ma non meno importante, l’implicita voglia di essere capaci di andare oltre i limiti, raggiungere uno stato di beatitudine e d’esistenza tanto concreto quanto astratto, figlio della fusione tra il pilota e la macchina, possibile solo quando corri ad una velocità tale che ogni percezione viene alterata e la realtà distorta.
La Grande Sfida di James Mangold porta una profonda devozione e rispetto al mondo delle auto e nel raccontarlo sceglie di fare proprio il concetto di dualità, di sfida, tanto che l’impianto narrativo che sostiene l’intreccio si riduce semplicemente ad un continuo mettere in contrasto persone, luoghi, usi e costumi: i dirigenti americani della Ford in contrapposizione con quelli del cavallino rampante; il lato amministrativo dell’azienda americana che trova il proprio diretto avversario fisico, così come nelle trattative di compra-vendita, nella controparte Ferrari; i motori made in Italy messi a confronto con quelli USA; il significato stesso della corsa in auto che per il pilota è un atto e un rito sacro, mentre per gli azionisti è solo un mezzo per un fine più concreto e terreno: il guadagno e la pubblicità.
Ogni personaggio in Le Mans ’66 è un cercatore di sogni e conquistatore di ambizioni, guida una metaforica macchina personale dove al traguardo il trofeo assurge alla forma di ciò che più desidera: un riscatto sociale, individuale, finanziario.
Eppure, sebbene questi aspetti possano far credere che si stia parlando di una pellicola priva di animo e piatta nel suo districarsi tra i meandri della storia delle corse, a sostenere un ritmo frenetico, ma accuratamente dosato, è il carisma e l’interpretazione di un cast affiatato il cui vertice trova la sua massima forma di rappresentazione nell’ispirate performances di Matt Damon e Christian Bale.
I due amici, ripetutamente in contrasto tra loro, sono capaci di dar vita sullo schermo ad una alchimia pressoché perfetta, incarnati da due attori che conferiscono al progetto un plus in più, un valore aggiunto notevole, sebbene non necessario, vista la qualità tecnica generale, ma fondamentale.
Bale offre un’altra prova di bravura, l’ennesima, specie quando è da solo nell’abitacolo e comunica ogni tipo di emozione con il proprio sguardo magnetico: il suo Ken Miles è un uomo ordinario, un reduce di guerra, in bilico tra il dovere di padre e marito e la tentazione delle auto da corsa, in cui cade sempre e comunque, la cui sola determinazione gli conferisce al volante un quid di straordinario.
Qui sta uno dei pregi di Le Mans ’66, un elemento, nell’economia del progetto, non da poco che lo contraddistingue distintamente: laddove in altre pellicole è solito trovare comprimari che cercano di far prendere le distanze dalle passioni estreme dei protagonisti, facendoli ragionare sul quanto correre in pista possa rappresentare un pericolo mortale, nella pellicola di Mangold mogli, amici e figli indirizzano e sostengono il Miles di Bale a mettere la sua firma nella storia delle corse. Non è, questo, un atteggiamento che vuole fare di un uomo comune un super-eroe, né è dettato da necessità strettamente pecuniarie, è proprio e solo la consapevolezza che ci sono uomini predestinati a vivere ad un’altra velocità, persone chiamate ad intraprendere azioni al volante di un mezzo che non tutti possono comprendere, gestire e capire.
Sono coloro ai quali brucia nel corpo un’ossessione, una caparbietà, un fuoco indomabile che non può e non dove essere sopito, ma lasciato libero di alimentarsi e trovare modo di brillare nelle tenebre.
Non è casuale che venga più volte ribadito il concetto che per arrivare primi in una corsa di ventiquattro ore non serva solo una macchina veloce, ma anche il pilota perfetto, il più puro dei purosangue e, estremamente logico nella sua natura di crociato della strada, che questi non guardi ad altro se non alla semplice necessità di scendere su quella pista e gareggiare.
Miles, che ad un carattere scontroso nella vita di tutti i giorni sostituisce una poetica delicatezza al volante, potrà sacrificare il sogno di tagliare meritatamente il traguardo in solitaria, ma acquisterà il rispetto dei più grandi esponenti del settore.
Le Mans ’66 è pura adrenalina, godimento ed eccitazione ad ogni sterzata, il film perfetto sulle corse automobilistiche, la storia della collaborazione e amicizia tra Carroll Shelby e Ken Miles, i due che nelle loro diversità hanno costruito un’intesa sulla loro più grande passione: le auto da corsa.
Non fosse per una chiusura che vira su una nota malinconica che stride con quanto rappresentato con fierezza per tutta la durata del girato, Ford vs Ferrari (titolo in lingua originale) avrebbe potuto vantare uno dei più bei finali degli ultimi anni, con un’inquadratura simbolica capace di far combaciare alla perfezione innumerevoli elementi in una armoniosa conclusione, sorretta, quest’ultima, dal quesito a cui fin dall’inizio il film suggerisce che ogni pilota voglia dare una risposta: “There’s a point, seven thousand RPM, where everything fades. The machine becomes weightless, just disappears. And all that’s left is a body moving through space and time. Seven thousand RPM. That’s where you meet it. It asks you a question. The only question that matters: Who are you?”