“C’era una volta, o forse non c’era.
Molto, moltissimo tempo fa, in una terra non troppo lontana, quando la paglia veniva passata al setaccio, l’asino era il banditore della città e il cammello era il barbiere, quando io ero più vecchio di mio padre e lo dondolavo nella culla se lo sentivo piangere.
Quando il mondo era sottosopra e il tempo era un cerchio che girava e girava. Così che il futuro era più vecchio del passato e il passato era integro come un campo appena seminato..”
Chi mi conosce ormai lo sa, Istanbul è diventata per me quasi una casa. L’unico luogo in cui caos e pace si mescolano perfettamente fuori come dentro la mia testa.
“È una sala di specchi dove niente è esattamente come sembra“, dove l’aria è pesante, di nebbia o umidità, di una tristezza ingenita che ogni uomo porta come un peso sulle spalle curve, che pesa più del carretto del tè o dei sacchi neri con la merce da vendere al mercato.
Che pesa più di un velo da fissare ogni mattina, più di uno sguardo puntato addosso da tristi occhi scuri su un tram, più delle reti da pesca piene da tirar su al tramonto.
È un luogo di dolore e accettazione, colpito al cuore con un’assiduità disarmante, nel quale le teste ormai non si alzano nemmeno più. Si spazzano i detriti, si pulisce il sangue, e rimane solo la rassegnazione.
È un luogo che ha ceduto alla pena, senza amarezza, è un dolore senza angoscia, o rabbia, o tormento. È sopportazione, quella della gente di Istanbul, che sta come rami piegati da un inverno rigido, sopravvissuti, ma la loro pelle sa quanto freddo hanno patito.
Ed è per questo che questa è stata la guida più difficile da partorire, niente sembrava mai abbastanza, nessuna parola riusciva mai a rendere giustizia agli odori, al calore, al sentirsi amalgamato nella città che da millenni accoglie viaggiatori e pellegrini, e continua a farlo. Ma stamattina la nostalgia ha avuto la meglio. Il dolore per quello che sta accadendo fa paradossalmente crescere la voglia di tornare, di non rimanere impotente a guardare con le mani in mano, di partire ancora.
Ho scritto le prime righe su un foglio, a Luglio, ho buttato giù qualche appunto, preso in mano i vecchi diari, e a una frase mi sono interrotta, ho acceso il computer e ho preso un biglietto aereo.
L’ultimo attentato sanguinario c’era stato solo pochi giorni prima, la precauzione di scegliere un aeroporto secondario è stato più uno scrupolo di coscienza nei confronti dei miei che altro, niente di diverso in città, la solita calma armata.
Ma a quella frase era scattato qualcosa nella mia testa. Ho pensato al porto, ai pendolari che tornavano dal lavoro nel caos di Üsküdar, ai container ad Eminönü, ai pescatori sul Ponte di Galata.
E ho pensato che non avevo mai visto l’alba, a Istanbul. Neanche una volta in tutte quelle mattine in cui era ancora buio, ma il muezzin già cantava. Che non avevo mai visto i gabbiani padroni del porto, o i portuali appena entrati al lavoro, che mi ero persa l’aria fresca in viso, il vento del golfo, seduta su una panchina, senza nulla da fare che osservare, e capire. Perciò sono tornata.
Com’è cominciata me lo ricordo benissimo. Due soldi in tasca e ferma non riesco a starci.
Ricordo che dissi al mio amico, “Partiamo. Ti lascio scegliere, Turchia o Marocco. E sai bene che molto probabilmente l’una escluderà l’altra, forse per sempre.”
E Turchia fu. La mia bella idea del giro dei pazzi dell’Anatolia però non convinse troppo il mio compagno di viaggio – il buon Lorenzo – che ben sperava di riposarsi qualche giorno, magari in qualche bagno turco. Ma non era mai stato in vacanza con me. (E non c’è più tornato, ndr)
Come al solito in super low-cost troviamo un biglietto con scalo a Fiumicino e una bella pensione a Çemberlitaş, il cuore della Istanbul della tradizione. Il proprietario parlava un po’ di italiano ed era felicissimo di potersi esercitare con noi, il povero addetto alla reception invece – da noi ribattezzato Igor per la stazza e le sembianze sovietiche – non andava oltre il turco. Zero. Neanche good morning o bye bye. E l’imbarazzo per la lacuna linguistica gli si leggeva in volto ogni volta che cercavamo di entrare in contatto, ogni volta che con la sua gentilezza ossequiosa – tipica turca – cercava di far di tutto per venirci incontro. (Vi dico solo che ha rubato dei fornelli per noi, ma meglio non approfondire).
Un consiglio, benché io sia la prima sostenitrice del “poco tempo/vedo tutto”, Istanbul è diversa. È come Roma. Andarci per buttare uno sguardo alla Moschea Blu o farsi un selfie ad Agia Sofia non solo è inutile, è triste, perché vi avrà fatto perdere una delle esperienze più meravigliose che avreste potuto fare.
Dieci giorni di full immersion, se partite con l’animo del viaggiatore e non del turista, basteranno per farvi entrare nella cultura turca e conoscere ogni vicolo polveroso di questa città magica. Una città disordinata, misteriosa, rumorosa e piena di profumi, e colori, ma che nasconde a un occhio poco attento la sua vera natura, quella vena di malinconia che ogni palazzo, ogni rovina, ogni viso per la strada si porta dietro, che si può leggere nello sguardo degli anziani per Fener, o dei pescatori all’alba sui battelli sul Bosforo.
È difficile da spiegare, Pamuk la descrive come una malinconia originaria, ma sentita per scelta, come un fardello consapevole di cui non ci si vuole liberare, che crea in tutta la città una coltre decadente di nostalgia che ti attanaglia il cuore già al primo passo. Ogni angolo è permeato da questa malinconia, da quest’aria splenica di un passato glorioso e di un futuro incerto.
Quando indichiamo il momento più felice della nostra vita, siamo anche consapevoli che si tratta di un passato remoto che non tornerà mai più, e questo provoca in noi un grande dolore.
Lasciamo un po’ il cuore da parte però, e cominciamo ad esplorare una delle città più belle e sfuggenti, enigmatiche e piene di contrasti del globo.
Istanbul omnia est divisa in partes tres: la parte storica, la parte europea, la parte asiatica.
In realtà la distinzione è fuorviante: la parte storica è quella attaccata all’Europa, la parte europea è quella in Asia, e quella asiatica non ha nulla dell’esotismo che ci si immagina, come capirete dopo.
- LA PARTE STORICA
È la parte ancora formalmente europea, collegata alla parte sostanzialmente europea dal meraviglioso Ponte di Galata e separata dalla parte asiatica da tutto il golfo del Bosforo.
Corrisponde sostanzialmente ai distretti di Fatih (la zona entro le mura di Costantinopoli), di Eyup e di Zeytimburnu.
È una zona meravigliosamente coerente con se stessa, e questo è un punto focale perché se mai sarete così fortunati da vivere Istanbul capirete che tutto ciò che può sembrare incoerente in superficie, in realtà rientra tutto nell’idea di “Istanbul”.
È il crocevia delle tre maggiori religioni, costantemente divisa tra Occidente e Oriente, ha conosciuto l’egemonia romana, il disfacimento dell’Impero, la dominazione ottomana, il modernismo di Atatürk, il nuovo sultanato di Erdoğan, e tutto si amalgama, si sovrappone in maniera talmente naturale, coperto, avvolto dall’anima della città, che ha fatto propria ogni epoca, senza mai cancellarla del tutto.
Istanbul è la “Nuova Roma” (Yeni Roma) e, proprio come la caput mundi, la sua parte storica si sviluppa su sette colli.
Se come me toccate facilmente i 30km al giorno in vacanza, salire e scendere dai colli è un toccasana per le cosce, parola di buona forchetta. Anche perché benché si dica che Istanbul sia cara, lo è solo per gli standard turchi, e vi accorgerete presto che le piccole gioie della vita sono talmente accessibili che pur camminando come Forrest Gump dalle 8 di mattina alle 9 di sera riuscirete comunque a prendere peso. Tutta colpa del profumo dei simit, gli anelli di pane caldo al sesamo che i carretti vendono nelle piazze, e soprattutto di quelli alla Nutella (lusso prerogativa delle zone turistiche).
Cominciamo quindi il nostro giro con la Istanbul turistica, con Sultanahmet, meta di visitatori da tutto il mondo, sede di uno dei luoghi più suggestivi del pianeta.
Mi piacerebbe dilungarmi sulla storia dei luoghi, sull’architettura del maestro Sinan, e sulle vite dei sultani ottomani, ma quelle potete leggerle con tutta calma su Wikipedia, come ho fatto io prima di partire.
Adesso no, in queste guide, come sempre, tutto ciò che voglio è portarvi sulla strada. Tra i minareti coperti di neve in Inverno, nel calore appiccicoso del bazaar d’Estate, voglio che riusciate a odorare le spezie, a vedere nitidamente davanti agli occhi le luci che illuminano di notte la città vecchia, voglio che crediate di poter uscire dalla porta e trovare un fornaio di Balat cuocere pane azzimo.
Il consiglio però è sempre quello di partire dai must-see della città, con piazza Sultanahmet appunto.
Con la Moschea Blu (dalle oltre 21’000 maioliche di İznik sui toni del blu e turchese che ne ricoprono l’interno) e l’Ippodromo romano, continuando, nel raggio di nemmeno un chilometro, con la Basilica Cisterna (la Yerebatan Sarnici, la più grande cisterna sotterranea della città, costruita da Giustiniano), i giardini di Sultan Ahmet, con la loro calma armata, di cestini da pic-nic, kalashnikov e soldati, Ayasofya e Aya İrini, e il celebre palazzo Topkapi con il suo harem.
Tutto molto bello, luoghi meravigliosi che meritano senz’altro una visita. Ma non so voi, solo che io alla quarta cucina del Sultano iniziavo a non poterne più di ori, maioliche e vasi da notte decorati.
Per questo mi comprenderete se vi rimando ad altre guide per i dettagli, e vi propongo invece itinerari alternativi.
Esempio numero uno: la Basilica Cisterna. Molto bella senza dubbio (vado sulla fiducia, perché non ci sono entrata), alla fine per 10lt (5E più o meno) di biglietto un’oretta si poteva anche perdere. Ma con un po’ di campanilismo e di tipica italica ignoranza ho pensato invece che se avessi voluto vedere due colonne romane e un po’ d’acqua me ne sarei andata sulla Colombo.
Ecco perché la Chris Burkard dei poveri non poteva non spulciare i dintorni in cerca di emozioni alternative. Quando odorate da lontano file ordinate di tedeschi con le macchine fotografiche, fuggite. Preferite un po’ di avventura.
Occorre dunque da Sultanahmet spostarsi a Laleli (in turco “tulipani”), il quartiere degli immigrati dell’ex blocco sovietico, che hanno fatto fortuna con l’import/export di abiti.
Ad Istanbul ogni quartiere ha la sua ratio essendi: c’è il quartiere degli ospedali, farmacie e attrezzature mediche, quello delle spezie, quello delle scarpe, quello dei meccanici.
Laleli è un posto a sé. Vie e vie di palazzi riempiti fino all’ultimo piano di negozi. Negozi occidentali, con nomi occidentali (spesso italiani, sempre contraffatti), negozi in cui non puoi entrare.
Eh no, perché a Laleli ci sono solo show-room. È un quartiere commerciale, di negozi all’ingrosso, in cui le commesse ti impediscono anche solo di metter piede. È una piccola madre Russia in territorio turco, con cartelli in cirillico, musica dell’est, e una piazza, il Dadaş Parkı, nel quale si radunano le donne dell’ex blocco sovietico per proporsi come badanti.
Attraversando Ordu Caddesi e facendosi strada in queste vie frenetiche ma ordinate rispetto al resto della città, piene di vetrine, se si guarda bene si trova quello che un tempo fu il monastero bizantino di Myrelaion. Oggi è una piccola moschea, Bodrum Camii, frequentata dai fedeli ceceni, russi e da immigrati slavi.
Proprio al di sotto, un piccolo negozio di scarpe (Mirelion Çarşısı), e solo entrando ci accorgeremo dei corridoi gremiti di merce che si snodano da lì: un vero e proprio “centro commerciale” (non so quanto lecito) sotterraneo. E scansando con i piedi qualche scatola, e con il capo qualche giubbotto di pelle e qualche pelliccia, prima o poi ci accorgeremo di essere in realtà dentro un gioiello. Altro che mercato nero sovietico. Siamo all’interno di una vera cisterna romana, ancora conservata, che conta ben settantaquattro colonne.
Ecco, queste sono le vere gioie. Guardare alla bellezza che si palesa da sola non porta soddisfazione. Una cosa bella è messa in mostra perché tutti possano guardarla. Trovare la bellezza dove gli altri non guardano invece è una conquista, è guardarsi intorno con una punta di gelosia, quasi a voler essere l’unica persona a poter godere di spettacoli di cui gli altri non si accorgono, e che non possono capire.
Se siete in vena di compere però, non posso proprio tenervi lontano dal Gran Bazar (benché per gli acquisti io preferisca di gran lunga le viuzze trafficate di autoctoni di Fatih, tourists-free).
Il Kapali carsi (mercato coperto) è una città dentro la città e non solo perché è grandissimo (più di 30’000m²) e pieno di migliaia negozi di ogni tipo (perdersi, neanche ve lo sto a dire, è facilissimo), ma proprio perché è racchiuso da porte (gli han, i “caravanserragli”), che ogni sera alle 19.00 fino alle 8.30 del mattino si chiudono impedendo di fatto anche il semplice passaggio.
Immaginate di dover tornare a casa la sera e di trovare il centro della città sbarrato. I radi personaggi che incontrerete (per lo più senzatetto, o netturbini) non staranno neanche a chiedervi dove dovete andare, tranquilli, vi hanno già inquadrati come turisti. “Right, right!”, tanto vale a farvi circumnavigare il mercato. Voi girate sempre a destra che non sbagliate.
Il Bazar ha un odore che mi è rimasto addosso per giorni. Capita a volte di riconoscere per la strada un profumo, e ritrovarsi per un momento ad Istanbul, tra le spezie e i dolci del mercato. Io tra l’altro ho anche trovato marito, al Bazar.
Mio nonno, da bravo marinaio, mi aveva inviata in missione, a comprare “il peperoncino piccante come lo trovai solo lì”, e io avevo pensato bene di cercarlo al Mercato. Ingenua. Mai fidarsi dei turchi! Non è razzismo – sono pur sempre una brava terrona – ma sono un po’ i napoletani dell’est.
Potrebbero vendere anche la Torre di Galata, se trovassero un acquirente.
A scopo esemplificativo: per comprare questo benedetto peperoncino, ho usato il mio compare – il buon Lorenzo – come cavia, con il risultato di averlo fatto quasi soffocare per averne provato una puntina di spillo.
È questo, senza dubbio! Mi son detta. E dopo innumerevoli chiacchiere in italiano (tutti hanno almeno un parente italiano a sentir loro – davvero tutti – e tutti conoscono la torre di Pisa, e te lo dicono facendo il gesto con le mani – sì è storta, lo so anche io), e una non troppo velata proposta di matrimonio da parte del commesso, dopo aver gentilmente rifiutato lo abbiamo comprato.
Inutile dire che fosse piccante come l’acqua fresca.
Ma il bello è anche questo. È soprattutto questo! È girare con un bersaglio dietro con scritto “turisti” e imparare pian piano a cavarsela, a farsi le ossa. Ma è anche confondersi tra loro girando da sola con il capo coperto e godersi il passare inosservata, come se davvero quella fosse “casa”.
Unico accorgimento sul bazar: come nel più tipico cliché bisogna sempre insistere, su qualsiasi cosa, non mollate mai la presa con un turco, chi l’ha dura la vince, siempre. Sono riuscita a portare a casa ogni cosa che ho comprato a metà prezzo, almeno. Devi capire dai gesti e dalle espressioni quando stanno per mollare, quanto stanno tirando, ingigantendo il valore del bene (“questi foulard li porta mio cugino da Bursa! Sono fatti a mano, sono pregiatissimi!” – il cugino è immancabile, attenzione), devi dire che l’hai trovato in un’altra bottega a molto meno, devi prestare attenzione alla faccia offesa a morte del commerciante, che nella maggior parte dei casi accorderà il prezzo.
Ma attenzione a dove lo fate.
Dubito che il buon Lorenzo che ricordi con simpatia un’esperienza in particolare del nostro viaggio.
Eravamo a Zeytymburnu, distretto popolare ad est di Fatih, popolato dagli anni ’50 dagli immigrati dell’Anatolia, dove a parte gli ospedali e le antiche mura teodosiane in totale abbandono, non c’è davvero nulla.
Le mura e la fortezza di Yedikule (delle 7 torri) versano in una condizione di estremo degrado. Il castello è chiuso da anni, e recentemente il caro Erdoğan ne ha fatto ristrutturare un pezzo, con del cemento. Il risultato è questo: adesso lo chiamano Spongebob.
Le mura sono il bivacco della comunità rom (altro episodio che ancora Lorenzo mi rimprovera, ma che non vi sto a raccontare. Solo, se vedete un signore poco distinto con una motosega che vi viene incontro sbraitando, capite al volo che non è il momento né il luogo per giocare a Dora l’esploratrice).
Dicevamo comunque, trattare sul prezzo. In quel di Zeytimburnu, nel caos appena dietro la litoranea Kennedy Caddesi, c’è un dedalo di stradine che ai turisti sono precluse. Perciò al nostro amico contrabbandiere non sarà parso il vero di vedere una donna vestita all’occidentale ed un uomo un po’ spaesato con lo zainetto sulle spalle.
Psst. Psst.
Spanish? English? I have everything. Perfumes. Do you want perfumes? I have all. Black Market. Mercado Nigro.
E comincia a tirar fuori da un enorme saccone nero della spazzatura (che lì usano come buste dei negozi un po’ ovunque) alcuni profumi a scopo esemplificativo.
Io non lo so cosa avessi in quel deserto del Gobi che ho al posto del cervello, ma dato che non mi ero portata il profumo, mi sono fermata, chiedendo se avesse il mio.
“Chanel? Yes, yes, I have. Wait.”
E ci molla letteralmente lì con il suo saccone pieno di profumi di contrabbando in mezzo alla piazza.
A quel punto Lorenzo comincia ad avvertire leggermente la tensione, e propone la fuga, abbandonando il sacco.
Purtroppo aguzzando un po’ gli occhi si potevano notare bene i colleghi del nostro amico piazzati agli angoli delle vie di fuga. In mezzo al nulla. Nella Tor Bella Monaca del Bosforo. Quindi meglio di no.
Il trafficante torna, mi tira fuori una perfetta confezione imballata con tanto di bollino cangiante, e mi chiede 50lt (ca 15E).
“Eh no, open it. I don’t trust you.” “It’s real, not fake, look, look!”
Lo apre, la confezione è perfetta, il liquido è marroncino. “Oh no, this is not Chanel..I’m sorry, bye!”
Al che lui mi ferma, lo apre e me lo spruzza. Devo dire che aveva un buon odore, ma di certo non era il mio. (E chissà di cos’era fatto, tra l’altro)
Faccio cenno di no, e faccio per andarmene, al che lui mi trattiene per un braccio, autoritario: “We have a problem. I opened it”.
Il resto è un climax ascendente di preghiere di Lorenzo di pagarlo e andarcene, e un climax discendente del tipo che abbassava il prezzo. Io, stoica, faccio capire chiaramente al compare che da lì non mi schiodo pagandogli neanche una lira.
Arriviamo al punto morto in cui il prezzo si è abbassato a 15lt (4 E) con in regalo un profumo da uomo per “my friend”. Gli ribadisco che non esiste e che sono più testarda di lui.
Ci lascia andare. Devo solo sperare che mi vada sempre bene così.
Ma la forza dell’uscire fuori dalla tua zona di sicurezza sta proprio qui. Non è sempre tutto come in una poesia di Hikmet, o in un film di Ceylan, o in una pagina di Pamuk. Tutto qui è contraddizione necessaria: troppe realtà coesistono, e si interscambiano, e si cancellano a vicenda, senza lottare.
È dubbio, e incertezza. È come sbirciare da dietro il vetro di una finestra dimenticata aperta, dalla quale entra la neve che si deposita sul pavimento. Sono strati di vita vissuta da sconosciuti, dai ricchi signori dei palazzi ottomani agli scrittori in cerca della perduta ispirazione sulla terrazza di Pierre Loti. Dall’autista del tram di Beyoğlu magari, o da Yusuf, emigrato da Bursa in cerca di lavoro.
E non è che una minima parte della meraviglia di questa città.
Alla prossima settimana con Fener, Balat e Zeyrek, i miei luoghi preferiti di Istanbul, tra le strade più impenetrabili della città, in cui Allah, Dio e Jahvè tornano Uno.
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