21 Novembre 2024

Conclusosi ogni sentimentalismo (vedere prima parte) andiamo finalmente dentro al pieno degrado del viaggio in uno degli ultimi luoghi in Europa che l’uomo non è riuscito a domare, in cui è la vita dell’uomo ad essere stata modellata dalla natura, e non viceversa.

Prima cosa: arrivare in Georgia con voli diretti è possibile e molto comodo. Ma anche molto costoso.


Perciò se siete il lettore-tipo di questa rubrica (universitario e tendenzialmente squattrinato) armatevi di tanta tanta pazienza e di un bagaglio piccolo (davvero piccolo, altro che Ryanair, la Wizz Air non scherza) e leggero, e preparatevi a qualche scalo educativo.

Educativo perché spesso avrà orari improponibili e vi costringerà a passare pazienti notti in aeroporti non termicamente isolati insieme a trekkers puzzolenti in sacco a pelo e ai barboni del paese, che si scaldano a forza di grappa.

Nel mio caso, essendo sprovvista per ragioni politiche di passaporto (mamma apprensiva che lavora in questura con figlia con gusti discutibili circa le mete di viaggio), la scelta è caduta sull’unico porto di scalo praticabile con la ID, ossia Budapest, perché in Georgia si può arrivare con la ID solo transitando da Paesi Schengen.

(Mi raccomando i documenti integri, perché se non avete gli occhioni da cucciolo abbandonato come me è assai probabile che vi rimpatrino con effetto immediato, come voleva fare la prima poliziotta ad aver preso in mano la mia carta di identità. Soprattutto perché nessuno aveva mai visto una carta elettronica e pensavano tutti fossi sudamericana. Non vi dico i controlli antidroga.

Fortuna che con questa faccia non somiglio troppo a Pablo Escobar, e dopo un’ora mi hanno rilasciata).

Impressioni veloci su Budapest: convinta che l’Ungheria sia manna dal cielo per la mia ricerca del degrado nel mondo, Budapest mi ha delusa. Troppo pulita e pettinata. Dov’è il regime? Dov’è la rivoluzione? In 10 metri quadrati sotto terra nel memoriale davanti al Parlamento. Decisamente non abbastanza.


Sofia invece (lo scalo del ritorno) sarà presto oggetto di una guida personalizzata. Di materiale ce ne è in abbondanza, andateci.

 

Tornando a noi, ponendo che arriviate all’aeroporto di Kutaisi, all’uscita dal gate dovrete fare tre cose fondamentali, in tre banchetti tutti di fianco accanto all’uscita:

  1. ritirare all’ATM (costa caro quindi fatevi un calcolo preventivo e prelevate una volta sola, se riuscite – comunque alla fine dell’ultima parte, la prossima, farò un bilancio delle spese)
  2. comprare una scheda telefonica Geocell: la scheda in realtà è gratis, e i gb di internet costano veramente poco. Io ne ho consumato solo uno in 10 giorni. Se viaggiate come si deve internet non vi serve.
  3. andare a cambiare il biglietto che avrete diligentemente fatto online al banco della Georgian bus, che almeno all’arrivo è il modo più veloce per raggiungere Tbilisi, Mestia, Batumi.

Più veloce perché: perché in questo meraviglioso Paese il trasporto pubblico non si è ancora capito se esista o meno.

Ci sono treni, certo, ma sono lentissimi e spesso in condizioni improponibili. Il mezzo di trasporto prevalente (sia per la città, che fuori) sono le marshrutke: vecchi pullmini messi male, ma davvero male (a Tiblisi un autista insisteva col voler partire con la portiera aperta; delle ragazze polacche mi hanno raccontato del loro viaggio sulle strade impervie della Svanezia senza il pedale del freno. Non chiedete, non so.)

Ce ne è qualcuno pubblico, ma per la stragrande maggioranza sono mezzi privati: si contratta sul prezzo e la tratta con l’autista, che al 100% sarà un omone georgiano che odora un po’ (tanto) di chacha, la famosa grappa Georgiana.

A causa della scarsa manutenzione dei mezzi, della condizione delle strade e spesso della non osservanza delle regole del Codice della Strada georgiano da parte dei conducenti, si raccomanda estrema cautela nel loro utilizzo e si invita a considerare la preferenza di mezzi alternativi. (ahahahah)

La Farnesina sulle marshrutke

 

Prima tappa: Mestia. Il cuore dello Svaneti, una regione praticamente incontaminata nell’estremo nord della Georgia, al confine con la Russia, dal 1996 patrimonio dell’UNESCO.

Luoghi tanto impervi da aver protetto l’antico popolo degli Svan dalle dominazioni e dalle contaminazioni esterne. Il popolo dell’antica Colchide è un popolo fiero, abituato al duro lavoro e all’isolamento dovuto all’impercorribilità delle strade con l’inverno. Le piogge rendono i sentieri ricavati nei costoni delle montagne totalmente impraticabili, e bloccano l’ingresso ai villaggi per mesi interi.

  • Come ricordatomi da un ragazzo belga, stanno tornando progressivamente in auge nella zona i rapimenti a danno dei turisti, anche se la Farnesina tranquillizza dicendo che sono diminuiti nell’ultimo periodo. Io sono qui a scrivere, quindi tranquilli, non mi si prendono neanche i georgiani.

 

La leggenda vuole che Dio nel distribuire le terre del mondo ai popoli li estraesse uno ad uno da un grande sacco, ma giunto sopra il Caucaso il sacco si rovesciò, sparpagliando tra queste montagne inospitali tanti popoli diversi.

Leggenda o meno, questi territori sono abitati simpatricamente da una varietà infinita di etnie, lingue e culture diverse, che convivono nello stesso Paese mantenendo con orgoglio la propria identità.

E qui nel Gran Caucaso gli Svan sono rimasti fino agli anni ’90 praticamente incorrotti. Dopo il terremoto del 1991 e il conseguente degrado socio-economico della regione, molte famiglie sono emigrate più a Sud, e anche chi rimane non sembra voler lottare per preservare le antiche tradizioni, o la lingua, che non viene gradualmente più parlata dai giovani.

Il rischio è che in qualche decennio lo Svaneti si trasformi in un luogo turistico, dato che nei piani c’è proprio quello di fare di Mestia un importante centro sciistico, ipotesi confermata dalla costruzione di un aeroporto a pochi chilometri (dire “aeroporto” suona quasi comico, sembra più un vecchio ufficio in smantellamento, e gli unici voli per Tbilisi che partono due volte a settimana sono spesso ritardati di ore o addirittura cancellati, per il maltempo o per mancanza di carburanteprendeteli voi).

La regione è famosa per le sue torri, meraviglie architettoniche costruite tra il IX e il XII secolo come difesa dalle incursioni esterne o baluardo nelle faide familiari. Le persone che ancora vivono nella zona abitano nelle case adiacenti, costruite su due piani: il primo funge da alloggio per la famiglia, e quello superiore è usato invece per la raccolta del fieno.

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Il borgo di Mestia è il vero centro della regione, con ostelli, affittacamere, forni dove comrare il pane tipico (puri), un ristorante e un centro informazioni. In teoria esistono anche dei “market”, ma la pratica in Georgia raramente rispecchia le aspettative: le provviste si comprano in stanzini bui, molti senza corrente elettrica, forniti di acqua, vino in bottiglioni di plastica, barrette di cioccolato, frutta e biscotti sfusi buttati nei cartoni, in condizioni igieniche agghiaccianti.

La cittadina è il punto di partenza per i percorsi e le escursioni nel distretto: da Mestia parte un percorso a piedi di 45km lungo la valle del fiume Enguri, fino ad Ushguli, il villaggio abitato più alto d’Europa (lo so, non siamo in Europa, ma non lo vogliono capire), che rimane isolato fino a sei mesi l’anno.

Quattro giorni di trekking intenso in montagna tra villaggi appena popolati, dove percorrere più di 12 km al giorno è un’impresa per pochi. Ma ne vale la pena.

Purtroppo però non tutti hanno un tempo infinito da trascorrere in viaggio, perciò per i poverini con i giorni contati come me c’è comunque una bella alternativa.

Al mattino presto la piazza principale di Mestia si anima dei burberi autisti delle marshrutke, che aspettano di riempire tutti e sette i posti per avviarsi verso le varie destinazioni. Dopo un’ora e mezza di estenuante trattativa (durante la quale due ragazze israeliane hanno abbandonato terrorizzate dal conducente) trovati cinque fin troppo allegri polacchi e un tedesco decisamente antipatico (è pur sempre tedesco) riusciamo finalmente a partire.

Le strade sono indescrivibili, così come quello che si prova nel correre su sentieri stretti a strapiombo sui costoni delle montagne, in cui il rischio di frane è una costante che vediamo materializzata più volte davanti ai nostri occhi. Ad un certo punto il fango è così alto che blocca il tornante e ci costringe a procedere a passo d’uomo, impiegando per percorrere quei 45km più di due ore e mezza. Tempo in cui l’atmosfera nella marshrutka si scalda, complice il boccione da due litri di veleno georgiano che il compagno Darek passa all’amico seduto dietro. Agnieszka, una delle tre ragazze, ha una parlantina svelta in inglese e presto entriamo in confidenza, perciò le chiedo di aggregarmi a loro per la giornata.

Lo spettacolo di Ushguli è impressionante. Un abitato composto da quattro villaggi in pietra, con le caratteristiche torri, davanti ad una delle viste più belle che abbia mai visto. Il monte Shkhara con i suoi 5200m si staglia bianco e lontano oltre la chiesa di Lamaria.

Allegre e rifocillate al bar del villaggio, mettiamo in borsa qualche pezzo di khachapuri e chebureki (il pane tipico di sfoglia fatto l’uno con uova e formaggio “kveli” e l’altro con carne mischiata di manzo e maiale), e i miei immancabili Kit-Kat e partiamo.

Otto chilometri percorribili in sei ore fino al ghiacciaio, tra i sentieri battuti dalle persone a piedi o a cavallo che si incrociano lungo il cammino, e quelli resi faticosi dalle piogge. Non avrei mai pensato di sentirmi tanto felice bagnata fino al midollo dopo aver guadato un torrente, o arrampicandomi sul fango con tre sconosciute e un cane randagio.

Ma naturalmente l’autista non aveva la minima intenzione di aspettarci per 12 ore (soprattutto perché la strada non sarebbe stata percorribile con il buio) perciò abbiamo dovuto accorciare il tragitto.

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Consiglio di rimanere di base a Mestia per almeno tre giorni, il tempo almeno di visitarne a piedi i dintorni, alla scoperta di vere e proprie perle sconosciute ai libri di storia e geografia, come l’abitato di Lashtkhveri, fuori da ogni mappa, a circa venti minuti a piedi dal borgo.

È un abitato davvero piccolissimo in cui vivono meno di 200 persone, sparse tra queste “fattorie” costruite attorno alle torri. In realtà alla pietra diroccata spesso si accompagna la lamiera, segno del degrado sempre più stringente della regione.

Camminando per i sentieri tra i recinti mi imbatto nelle solite mucche (tutto in Svaneti odora di cacca di mucca. Tutto.) e in polli starnazzanti rincorsi da due bambini felici, che però vedendomi subito si fermano, un po’ interdetti. Uno dei due sussurra un timido “Hello”. Lo saluto con la mano e un gran sorriso mentre continuano a rimanere fermi ad osservarmi. Turista sgamata.

(Lo studio dell’inglese è considerato molto importante nelle scuole, anche per i giovanissimi, nel tentativo di porre fine all’isolamento e soprattutto in vista di una futura entrata nell’Unione Europea.)geo11

Mentre cammino tra i sentieri infangati in cui gli uomini
raccolgono il fieno, le donne si affacciano dagli usci, non esattamente amichevoli. “Sto cercando la chiesa!”, congiungo le mani, ma non sembrano capirmi, e mi fanno capire che me ne devo andare, e anche alla svelta.

La piccola chiesa dell’Arcangelo Gabriele comunque è un gioiello, e val bene qualche occhiata torva per vedere i suoi meravigliosi affreschi ortodossi.

Perdetevi per la strada, in Svanezia, fermatevi ad osservare in silenzio lo scorrere tranquillo di questa vita pura, incorrotta, di campagna, dove tutto è rimasto com’era, e il piede pesante del progresso non è ancora riuscito a calpestare ogni cosa.

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PH credits: Fabrizia Capanna

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Fabrizia Capanna

“Il fatto è che tu non scegli quello che scrivi, mia cara Necla, spesso è l’argomento che sceglie te.” ("Kış Uykusu" - Nuri Bilge Ceylan)

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